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Reggio Calabria, aggressioni e risse: presi i “rampolli” dei clan

La Repubblica, Giovedì 27 Aprile 2017

Reggio Calabria, aggressioni e risse: presi i “rampolli” dei clan
Carabinieri e agenti della Squadra Mobile hanno eseguito 15 provvedimenti di fermo di indiziato di delitto, emessi dalla Direzione Distrettuale Antimafia nei confronti di altrettanti indagati appartenenti alla ‘ndrangheta, in particolare, alle famiglie Condello di Archi e Stillittano di Vito

di ALESSIA CANDITO

REGGIO CALABRIA – Nessuno di loro assomiglia ad Alex DeLarge, ma le aggressioni e i raid di cui si sono resi responsabili ricordano quelle di Arancia Meccanica di Kubrick. Obiettivo, mettere le mani – in esclusiva – sui locali della movida di Reggio Calabria. Per questo motivo, 15 persone questa mattina sono state fermate per ordine del procuratore capo Federico Cafiero de Raho dagli uomini della Squadra mobile e dei carabinieri della città calabrese dello Stretto. Tutti quanti sono accusati a vario titolo di associazione mafiosa e finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, porto e detenzione di armi da guerra e comuni da sparo, tentata estorsione, intestazione fittizia di beni e maltrattamento di animali, con l’aggravante del metodo mafioso.

Per inquirenti e investigatori, sono loro il nucleo centrale del branco che per anni ha terrorizzato le notti reggine con una serie di aggressioni, risse e intimidazioni nei locali della movida, soprattutto estiva. Episodi diversi, ma dal copione simile. E tutti legati da un filo rosso, tessuto dai rampolli di storici casati di ‘ndrangheta, come i Condello e i Tegano, insieme alle giovani leve degli Stillitano, una delle famiglie da sempre collegate agli “arcoti”.  Tutti clan della periferia nord di Reggio Calabria, ma che considerano il centro della città casa propria, cosa propria. E per ricordarlo a tutti, lo hanno rivendicato con violenza inaudita.

In gruppo il branco si presentava in un locale, nella maggior parte dei casi, uno dei lidi che d’estate animano le notti di Reggio Calabria. Utilizzando pretesti banali – un’occhiata “sbagliata”, uno sgarbo involontario – i giovani rampolli dei clan scatenavano risse gigantesche o semplicemente iniziavano a distruggere i locali, malmenavano gestori, proprietari e barman, terrorizzavano gli avventori. Gli uomini della security – tutta “gente loro” ha svelato l’indagine – rimanevano a guardare. Dopo il raid, il branco andava via indisturbato, lasciando dietro di sé ambienti distrutti, lavoratori feriti, avventori terrorizzati.

A volte le aggressioni e le violenze proseguivano anche fuori. L’episodio più grave è stato registrato di fronte a un bar della periferia della città. Nella notte fra il 28 e il 29 agosto 2016, un 28enne è stato gambizzato mentre tornava a casa, dopo aver trascorso la serata in un noto lido della via Marina. Una serata movimentata. All’interno dello stabilimento, qualche ora prima erano volate parole grosse e si era scatenata una rissa. Poco dopo, mentre il ragazzo era di fronte ad un bar in cui aveva fatto colazione, qualcuno gli ha sparato contro, trapassandogli la gamba da parte a parte con un proiettile. E come sempre, nessuno ha visto, nessuno ha sentito. È toccato alla Squadra mobile ricostruire con pazienza e determinazione il quadro in cui inserire quello strano episodio.

Ma i raid nei locali, in cui secondo indiscrezioni il branco avrebbe imposto di far circolare solo la “propria” droga, cocaina in particolare, non erano la loro unica attività. L’inchiesta ha fatto emergere anche un giro di corse clandestine di cavalli, che spesso venivano fatti correre anche sulle strade cittadine. Animali da competizione, dopati fino allo sfinimento, che di giorno non era difficile vedere pascolare tranquilli nei campi e nelle aiuole abbandonate della periferia della città. O attraversare indisturbati le vie cittadine, dove all’alba, agganciati a un calessino da competizione, trottavano veloci provando scatti e partenze. Un’attività “tradizionale” dei clan di Reggio Calabria e non solo, finita al centro di tante indagini. Perché nonostante l’evidente evoluzione della ‘ndrangheta tutta, all’abitudine di affermare il prestigio del proprio casato grazie alla corsa matta di un puledro, le ‘ndrine non hanno mai rinunciato.