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La Stampa,

Il boss e il principe: fondatore del Pd in Calabria faceva assumere i membri della cosca
Le accuse a Sandro Principe, l’influente esponente politico cosentino. Secondo la Dda inseriva elementi chiave del clan nelle pubbliche amministrazioni in cambio di voti

di  GAETANO MAZZUCA

Il boss e il “principe”, un accostamento fino a qualche settimana fa difficile anche solo da immaginare. Il primo è Ettore Lanzino, boss sanguinario della ‘ndrangheta cosentina, condannato all’ergastolo per omicidio, acciuffato dopo quattro anni di latitanza in un lussuoso attico. L’altro è Sandro Principe, padre fondatore del Pd in Calabria, deputato, ex sottosegretario al Lavoro, assessore e consigliere regionale, ma soprattutto sindaco di Rende, creatore della cosiddetta «città-modello» della Calabria. Gli ultimi 15 anni della storia politica al di qua del Pollino appaiono adesso sotto tutt’altra luce perché quel legame, fino a ieri inimmaginabile, invece ci sarebbe. E molto stretto.

Sarebbe stato proprio Sandro Principe, infatti, a far assumere il capobastone delle cosche nella cooperativa comunale Rende 2000. Lo mette nero su bianco la Dda di Catanzaro nell’avviso di conclusione delle indagini sul «Sistema Rende», che il 23 marzo scorso ha portato agli arresti domiciliari l’esponente del Pd. Il procuratore capo Nicola Gratteri, l’aggiunto Vincenzo Luberto e il sostituto Pierpaolo Bruni scrivono: «Sandro Principe disponeva o comunque sollecitava l’assunzione presso la predetta coop del capo del clan omonimo Lanzino-Ruà, Ettore Lanzino». Un contratto firmato dal boss il 9 aprile 2008 e terminato appena cinque mesi più tardi, a settembre, quando il gip Tiziana Macrì firmò il mandato d’arresto ed «Ettaruzzo» divenne un fantasma.

Ma quella assunzione non sarebbe stata l’unica. Gli inquirenti sostengono che almeno altre 23 persone affiliate o contigue alla cosca sarebbero state assunte nella coop. Secondo l’accusa, Principe avrebbe agevolato e rafforzato la ‘ndrina «aumentandone il prestigio e la capacità di infiltrazione», anche «orientando l’operato e le decisioni dei dirigenti del Comune», e ricevendo in cambio voti in ogni competizione elettorale per un periodo che va dal 1999 al 2011. La Dda individua otto episodi in cui il patto tra politica e clan si sarebbe concretizzato. Per esempio l’assunzione in Comune, quale lavoratore socialmente utile, di Adolfo D’Ambrosio, altro elemento di spicco della cosca tanto da essere attualmente detenuto al 41 bis. Due anni dopo l’assunzione D’Ambrosio finisce in manette con l’accusa di associazione mafiosa. Passano tre anni e D’Ambrosio torna a varcare il portone del palazzo di città. Sarebbe stato proprio Principe ad avallare non solo la riassunzione ma anche «l’aumento da 18 a 24 delle ore lavorative settimanali». Oppure la vicenda che riguarda l’altro braccio destro del boss Lanzino, Michele Di Puppo, sempre dipendente della coop comunale, che sarebbe stato promosso «a responsabile del settore di sua pertinenza», ancora con il placet di Principe.

Un quadro allarmante in cui la ‘ndrangheta cosentina avrebbe avuto la «possibilità di disporre di elementi di spicco nell’ambito della Regione Calabria, dell’amministrazione provinciale di Cosenza e comunale di Rende asserviti agli interessi e ai bisogni della cosca». Assieme a Principe sono indagati, a vario titolo, per concorso esterno in associazione mafiosa, voto di scambio e corruzione l’ex primo cittadino Umberto Bernaudo, gli ex assessori comunali Pietro Ruffolo e Giuseppe Gagliardi, l’ex consigliere regionale Rosario Mirabelli, Marco Paolo Lento e i quattro esponenti di vertice del clan: Adolfo D’Ambrosio, Michele Di Puppo, Francesco Patitucci e Umberto Di Puppo.

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