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Prendiamo atto dell’elaborato della Commissione Parlamentare Antimafia e di quanto in esso contenuto.Quello che ci stupisce é il fatto che la predetta Commissione ha ritenuto di audire solamente 2-3 associazioni e non altre,anche se importanti e comunque a conoscenza della materia che riguarda i Testimoni di Giustizia.Ci rifiutiamo di credere che ciò sia dovuto a logiche di contiguità politiche o meno anche se il tutto porta a sospettare ciò. Comunque,andiamo avanti ed provvedete ad attuare quanto proposto .

Ecco l’elaborato di cui sopra:
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Doc. XXIII, N. 4

COMMISSIONE PARLAMENTARE DI INCHIESTA SUL FENOMENO DELLE MAFIE E SULLE ALTRE ASSOCIAZIONI CRIMINALI, ANCHE STRANIERE

(istituita con legge 19 luglio 2013, n. 87)

(composta dai deputati: Bindi, Presidente, Attaguile, Segretario, Bianchi, Bossa, Bruno Bossio, Carfagna, Dadone, Di Lello, Segretario, D’Uva, Faraone, Fava, Vicepresidente, Garavini, Magorno, Manfredi, Mattiello, Naccarato, Nuti, Piepoli, Sarro, Sarti, Scopelliti, Taglialatela e Vecchio; e dai senatori: Albano, Bilardi, Bonfrisco, Bruni, Buemi, Bulgarelli, Capacchione, Consiglio, De Cristofaro, Di Maggio, Esposito, Fazzone, Gaetti, Vicepresidente, Giarrusso, Giovanardi, Lumia, Mineo, Mirabelli, Molinari, Moscardelli, Perrone, Ricchiuti, Tomaselli, Torrisi e Vaccari)

RELAZIONE SUL SISTEMA DI PROTEZIONE DEI TESTIMONI DI GIUSTIZIA

(Relatore: On. Davide Mattiello)

Approvata dalla Commissione nella seduta del 21 ottobre 2014

Comunicata alle Presidenze il 23 ottobre 2014 ai sensi dell’articolo 1, comma 1, lett. o) della legge 19 luglio 2013, n. 87  

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Pag. 5INDICE

1) Introduzione Pag.
2) Il quadro normativo » 11 
3) I dati acquisiti nel corso dell’inchiesta parlamentare » 14 
 3.1) I dati acquisiti attraverso le audizioni dei testimoni di giustizia » 15 
 3.2) I dati acquisiti dalle audizioni dei rappresentanti degli organi istituzionali » 16 
 3.3) I dati acquisiti dalle audizioni dei rappresentanti delle associazioni » 18 
 3.4) I dati acquisiti dalle audizioni degli avvocati di testimoni di giustizia » 20 
 3.5) I dati statistici » 21 
4) La figura del testimone di giustizia » 24 
 4.1) I parametri soggettivi » 24 
 4.2) I parametri oggettivi » 30 
  4.2.1) Il contenuto delle dichiarazioni » 30 
  4.2.2) La qualità delle dichiarazioni » 32 
5) La scelta delle misure di protezione » 33 
6) Le speciali misure di protezione (in località di origine) » 38 
 6.1) La tutela e la vigilanza del testimone di giustizia in località di origine » 39 
 6.2) L’assistenza economica del testimone di giustizia in località di origine » 40 
7) Il programma speciale di protezione in località «protetta» » 43 
 7.1) Le questioni inerenti la sicurezza » 44 
 7.2) Le questioni inerenti l’aspetto economico e il reinserimento socio-lavorativo » 46 
 7.3) Le questioni inerenti il disagio esistenziale » 52 
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8) Il piano provvisorio di protezione Pag. 55 
9) La durata delle misure di protezione » 56 
10) Dalla parte del testimone di giustizia » 58 
11) Verso una nuova protezione per i testimoni di giustizia » 64 

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1) Introduzione.

  Con il decreto legge 15 gennaio 1991, n. 8, convertito con modificazioni dalla legge 15 marzo 1991, n. 82, originariamente intitolato «Nuove norme in materia di sequestri di persona a scopo di estorsione e per la protezione di coloro che collaborano con la giustizia», la legislazione italiana, dopo anni di accesi dibattiti, riuscì finalmente a dotarsi di un sistema premiale, già sperimentato per il fenomeno del terrorismo, per coloro che, con la loro collaborazione, contribuivano all’accertamento di delitti di stampo mafioso.
Le iniziali perplessità, fondate principalmente sull’invocata differenza tra il pentimento del terrorista, che avverte il fallimento della propria strategia eversiva e della propria ideologia politica, e quello del mafioso, dettato invece da fini utilitaristici o vendicativi, vennero infine superate perché, nelle more, gli accadimenti degli ultimi anni avevano da soli abbattuto i pregiudizi e tracciato la strada verso la nuova normativa.
Già la vicenda di Leonardo Vitale, il primo pentito di mafia, che a causa della sua «collaborazione» del 1973, venne dapprima additato come malato mentale, poi rinchiuso per anni in un ospedale psichiatrico e, infine ucciso, nel 1984, dagli uomini di «cosa nostra», rappresentava un disonore per lo Stato che ciò non aveva impedito.
Ma, soprattutto, la celebrazione a Palermo, tra il 1986 e il 1987, del maxiprocesso con il determinante contributo dei «pentiti», Tommaso Buscetta e Salvatore Contorno, permise di apprezzare, non tanto la condanna di numerosi appartenenti all’associazione mafiosa, quanto la ricostruzione, dall’interno, di un sistema criminale pervasivo che era sì noto ma che restava profondamente sconosciuto e per questo invincibile.
Il decreto legge 1991, n. 8 fu, dunque, voluto e ideato per i pentiti, affinché si disponesse di eccezionali strumenti per la lotta alle associazioni mafiose, costruite spesso sulla falsariga dello stesso modello statale, e si rispondesse, con la codificazione, alle esigenze di tutela, affidate fino ad allora a prassi pressoché spontanee, e alla necessità di legittimazione processuale di coloro che a quella lotta contribuivano. Le «nuove norme (..) per la protezione di coloro che collaborano con la giustizia» non prevedevano, quindi, figure diverse dai pentiti e, pertanto, non distinguevano, nel novero di «coloro che collaborano con la giustizia», tra quanti provenivano dalle file dell’associazione mafiosa e coloro che, rispetto ad essa, erano semplicemente terzi o, al massimo, vittime.
Probabilmente per la necessità di arginare, in assenza di altri mezzi, talune gravi situazioni di pericolo per dichiaranti diversi dai pentiti, la prassi portò all’applicazione del medesimo decreto legge anche a questi ultimi, potendo comunque ravvisarsi, nelle loro rivelazioni, i tratti essenziali della collaborazione con la giustizia. LaPag. 8parificazione, però, diede subito luogo al paradosso dell’indistinto raggruppamento, sotto il comune denominatore della collaborazione, di delinquenti e di esempi di legalità, gli uni destinatari di benefici penitenziari e gli altri, invece, di perdite. Ma non fu certo questa anomalia a riaccendere il sopito dibattito sui collaboratori di giustizia. Dopo la prima sperimentazione del decreto legge n. 8 del 1991, venne infatti evidenziata, specie dalla classe forense, l’insidia di un sistema che consentiva, ai soggetti provenienti dalla criminalità mafiosa, le cosiddette «dichiarazioni a rate» che, di fatto, conferivano ai collaboratori un dominio incontrastabile sulle sorti dei loro accusati. Al contempo, dopo la metabolizzazione degli eventi drammatici che avevano colpito il Paese, si era diffuso, in una parte dell’opinione pubblica, un sentimento di ripugnanza per gli «stipendi d’oro» e per le scarcerazioni degli «assassini».
Furono queste, in sostanza, le ragioni che portarono al ripensamento della normativa premiale e, infine, alla legge del 13 febbraio 2001, n. 45 che, appunto, apportò radicali modifiche al decreto legge n. 8 del 1991.
La riformulazione costituì soltanto una comoda occasione per differenziare i, sempre meno meritevoli, collaboratori di giustizia dalle altre figure di dichiaranti in pericolo. Si ritenne che, all’uopo, bastassero due norme per sanare la sperequazione perpetrata: una che definisse i «testimoni di giustizia» e l’altra che prevedesse l’applicazione in loro favore, oltre che delle misure previste per i collaboratori, di emolumenti reintegrativi.

  Il legislatore del 2001, su impulso della stessa Commissione parlamentare antimafia nella XIII legislatura («Relazione sui testimoni di giustizia», Doc. XXIII, n. 11), ebbe sicuramente due grandi meriti: da un lato, quello di aver finalmente riconosciuto dal punto di vista normativo la figura autonoma del «testimone di giustizia», dall’altro quello di aver creato una figura che si ponesse in rapporto di compatibilità con i principi dell’ordinamento giuridico e di saperne esprimere, quanto meno embrionalmente, il profilo: il testimone di giustizia, essendo colui che adempie a un dovere civico, non può essere retribuito per le sue dichiarazioni ma, al contrario, deve essere posto nella condizione di renderle in sicurezza e senza che la difesa statale possa per lui risolversi in un danno economico, lavorativo o sociale. Pertanto, un rapporto tra Stato e testimone che non si fonda, né può fondarsi, sulla premialità o sull’assistenzialismo, bensì sul riconoscimento e la garanzia dei diritti pregressi. Tuttavia, nonostante questi meriti innegabili, il legislatore del 2001 non colse che l’assenza dei testimoni di giustizia, nel decreto legge n. 8 del 1991 voluto da Giovanni Falcone, non fu una dimenticanza. Quelle norme, infatti, introducevano, peraltro con una legislazione di emergenza, un sistema extra ordinem di contrasto alla criminalità organizzata.
La testimonianza, lato sensu intesa, invece, è l’estrinsecazione del diritto alla denuncia o dell’obbligo di riferire all’autorità giudiziaria che lo richiede e, pertanto, attiene, secondo il codice di rito, al meccanismo ordinario di riaffermazione della legalità e non a quello straordinario di lotta all’illegalità. Del resto, il testimone, estraneo all’associazione mafiosa e, perciò, con una conoscenza marginale e Pag. 9occasionale dell’organizzazione rispetto a quella del collaboratore di giustizia, solo eventualmente può contribuire a mettere in crisi il modello di condizionamento delle mafie.
Nessuna collaborazione, che letteralmente significa «partecipazione con altri», poteva essere immaginata per il testimone che non può essere un cittadino eroicizzato. Né alcun contratto poteva intercorrere tra lo Stato e il testimone ma, semmai, un atto unilaterale di riconoscimento di debito del primo verso il secondo. A parte l’osservanza delle regole di sicurezza, nessun altro sacrificio, come quello abnorme dei programmi speciali di protezione, poteva essere richiesto al testimone, in cambio della sua tutela, né sotto forma di menomazione di diritti e libertà, né sotto forma di assunzione di doveri di sorta.
Il legislatore del 2001 non colse, quindi, che la legge sui pentiti non aveva spazio per altri, ma, principalmente, non colse che la differenza tra collaboratori e testimoni era tale da andare ben oltre la diversa posizione processuale e che, anzi, quell’opera di diversificazione tra le due figure, applaudita come uno dei principali meriti della legge, significava invece accostare e contaminare entità tanto lontane e tanto dissimili da non dover essere nemmeno paragonate. Non si colse, cioè, che i testimoni necessitavano di un’altra legge, della loro legge, che delineasse e sviluppasse, oltre quelle due frettolose norme, i tratti di un fenomeno assolutamente dissomigliante dal pentitismo.
La dilatazione di un impianto normativo costruito su misura dei collaboratori di giustizia si è perciò risolta nel rattoppamento di un abito cucito per altri che, persino con gli ulteriori rammendi dei decreti ministeriali attuativi, non ha mai smesso di essere troppo largo o troppo stretto.
Forse ci si attendeva dall’esperienza concreta le indicazioni che potessero affinare il sistema o forse ci si aspettava dalle buone prassi il perfezionamento degli istituti e dei procedimenti soltanto tratteggiati. In effetti, la «Relazione sui testimoni di giustizia», approvata il 19 febbraio 2008 dalla Commissione parlamentare antimafia nella XV legislatura, dopo un puntuale lavoro ricognitivo, segnalava con veemenza le macroscopiche anomalie delle modalità attuative delle pur criticabili norme, tanto che auspicava perfino l’istituzione di un «comitato di garanzia» chiamato a vigilare «sul corretto ed efficace espletamento del programma di protezione del testimone di giustizia, e che intervenga nei casi in cui si verifichino particolari disfunzioni e inadempienze».
Dopo oltre 6 anni da tale relazione, si è constatato che alcune delle problematiche evidenziate hanno trovato risoluzione, sia attraverso la crescita professionale degli apparati amministrativi, sia attraverso l’introduzione di idonee prassi, sia attraverso l’intervento legislativo del 2013 che, occupandosi della ricollocazione lavorativa dei testimoni, ne ha previsto, l’assunzione presso le pubbliche amministrazioni.
Eppure, il decreto legge n. 8 del 1991, come novellato, è apparso sempre più inadatto prima ad accogliere, poi a mantenere, e infine a risocializzare il testimone di giustizia. Ciò perché, dopo oltre sei anni, anche qualcos’altro, nelle more, è cambiato.Pag. 10
È cambiata la fisionomia della criminalità rispetto alla quale il testimone va protetto. Pur con la consapevolezza che è prematuro permettersi trionfalismi sul fenomeno mafioso, sempre attuale e preoccupante, deve prendersi atto che, in molte realtà, le associazioni mafiose, strette dalla morsa investigativa, e al fine di assicurare la loro stessa sopravvivenza, hanno adottato la strategia dell’inabissamento, che tende ad evitare atti criminali eclatanti, o quella del «figliol prodigo», che tende ad accogliere tra le proprie fila l’imprenditore e a trasformarlo in un contento socio piuttosto che in una arrabbiata vittima.
Inoltre, i casi di «testimonianza», sono più numerosi del passato, sicché quel movimento trasversale di cittadini liberi dalle mafie che reagiscono e denunciano, è sempre meno controllabile e sempre meno esposto ai rischi. È lo stesso concetto di pericolo, dunque, a essere mutato: sebbene da considerare in tutte le sue infide sfaccettature e con la massima attenzione, va scollegato dai periodi emergenziali rispetto ai quali è stato calibrato e va rimodulato con più stretta aderenza ai singoli contesti.
In ultima analisi, il sistema di protezione, giusto o sbagliato che fosse, è comunque inesorabilmente invecchiato.

  Ma soprattutto, il malcontento dei testimoni di giustizia, lungi dal placarsi con le migliorie, ha continuato ad accrescersi parimenti al tempo che scorre. Per molti di loro, altri anni si sono aggiunti alla già lunga durata del programma speciale di protezione. Altri anni durante i quali è diventato più difficile cogliere le ragioni di un recinto asociale che ostacola il passo e dell’immutabilità di un pericolo che rimane grave nonostante i decenni trascorsi. In modo particolare, è cambiato il fatto che il sistema della protezione dei testimoni di giustizia, dopo oltre un ventennio di sperimentazione, di aggiustamenti e di aspettative, è da ultimo entrato in un cortocircuito incurabile il cui apice di surriscaldamento è espresso dalla costituzione, nel 2013, dell’«associazione nazionale testimoni di giustizia», fondata «per combattere l’indifferenza delle istituzioni, la lentezza burocratica legislativa e giuridica, per migliorare la sicurezza personale, (..) per garantire la tutela legale, economica, lavorativa» (1). Basta, del resto, digitare, su un qualsiasi motore di ricerca, la parola chiave «testimone di giustizia» per imbattersi in decine di articoli, di lettere, di racconti che denunciano, fondatamente o meno, l’abbandono e l’indifferenza statale. È nata, dunque, una guerra intestina tra testimoni e Stato, spesso combattuta attraverso campagne mediatiche o manifestazioni davanti alle sedi istituzionali, altre volte nei tribunali come germani controparti divisi dagli interessi economici.
In questo conflitto, talora, si nascondono mestieranti e speculatori o si collocano figure border line che la stessa legge non sa come classificare oppure si consumano altre battaglie fratricide tra chi è più testimone dell’altro, tra chi ha percepito di più e chi ha avuto di meno, Pag. 11 tra chi è fuoriuscito e chi è rimasto nel sistema di protezione, tra chi è stato privilegiato e chi, invece, non ha cercato i favoritismi che negano i diritti.
Ne è scaturita una reazione a volte altalenante delle istituzioni, che ora hanno ignorato, ora hanno abdicato, rimettendo al volontariato il compito del conforto e alla Commissione centrale per la determinazione e l’applicazione delle speciali misure di protezione presso il Ministero dell’interno quello, più ingrato, di stringere o allargare le maglie, pur di salvare il decoro di fronte a storie meritevoli di ogni riguardo, come quella di Pietro Nava che dichiara di essere morto insieme al giudice Rosario Livatino ma che rifarebbe la stessa scelta perché la legalità è semplicemente normale.
L’inchiesta parlamentare si è svolta in un momento in cui la crisi della struttura di protezione ha assunto l’aspetto di un fenomeno sismico. Non è più il tempo, quindi, dello studio di settore, dell’analisi sociologica, dell’approfondimento giuridico, dell’esame del caso singolo seppure emblematico. È il tempo, invece, di individuare le cause recondite del fallimento di un sistema che deve ritrovare la sua strada. A tal fine, si procederà, dopo una breve sintesi del quadro normativo e dei dati acquisiti nel corso dell’inchiesta che offrono la chiave di lettura delle regole scritte e non scritte, all’analisi degli istituti e delle procedure, ma con la dovuta precisazione che le riflessioni che seguono riguarderanno i testimoni dei delitti a stampo mafioso e che, pertanto, possono non essere pertinenti per i testimoni di altro genere di reati.

2. Il quadro normativo.

  La legge del 13 febbraio 2001, n. 45, proponendosi di riscrivere la disciplina per i collaboratori di giustizia e di inserirvi, ex novo, la figura dei testimoni di giustizia, ha scelto la tecnica dell’interpolazione intervenendo sul decreto legge 15 gennaio 1991, n. 8, convertito con modificazioni dalla legge 15 marzo 1991, n. 82, il cui originario titolo è stato modificato in «Nuove norme in materia di sequestri di persona a scopo di estorsione e per la protezione dei testimoni di giustizia, nonché per la protezione e il trattamento sanzionatorio di coloro che collaborano con la giustizia».
Per i testimoni di giustizia sono state introdotte due norme specifiche.

  La prima è quella di cui all’articolo 16 bis del decreto legge che:
definisce la figura dei testimoni di giustizia come coloro che «che assumono rispetto al fatto o ai fatti delittuosi in ordine ai quali rendono le dichiarazioni esclusivamente la qualità di persona offesa dal reato, ovvero di persona informata sui fatti o di testimone, purché nei loro confronti non sia stata disposta una misura di prevenzione, ovvero non sia in corso un procedimento di applicazione della stessa»;
estende le misure di protezione previste per i collaboratori nelle norme precedenti ai testimoni di giustizia e a quanti con costoro «coabitano o convivono stabilmente (..) nonché (..) a chi risulti esposto Pag. 12a grave, attuale e concreto pericolo a causa delle relazioni intrattenute con le medesime persone».

  La seconda, cioè l’articolo 16 ter, nonostante il titolo di più ampia portata («contenuto delle speciali misure di protezione»), disciplina soltanto la misura dello speciale programma di protezione e la differenzia, per gli aspetti patrimoniali e di reinserimento sociale, da quella prevista dall’articolo 13 del medesimo decreto legge per i collaboratori di giustizia.

  Inoltre, con l’articolo 17 bis, si demanda all’emanazione di decreti ministeriali la precisazione dei contenuti e delle modalità di attuazione delle misure di protezione. Ha completato la normativa il decreto del Ministro dell’interno 23 aprile 2004, n. 161, intitolato «Regolamento ministeriale concernente le speciali misure di protezione previste per i collaboratori di giustizia e i testimoni (..)» che, come si vedrà, oltre al compito integrativo demandatogli, ha cercato di svolgere un ruolo correttivo, seppur minimo e parziale trattandosi di fonte secondaria, per sopperire alla sbrigatività con cui la legge del 2001 aveva trattato la nuova figura dei testimoni.

  Il decreto legge citato e il regolamento disciplinano, quindi, la tipologia e il contenuto delle diverse misure di protezione, indicano gli organi deputati ad adottarle e ad attuarle e regolamentano il relativo procedimento amministrativo.
In particolare, secondo quanto stabilito dall’articolo 13 del citato decreto legge, intitolato «contenuti delle speciali misure di protezione e adozione di provvedimenti provvisori», è possibile distinguere tre diverse forme di tutela 
(2): il «piano provvisorio di protezione», le «speciali misure di protezione» e il «programma speciale di protezione», ulteriormente e rispettivamente puntualizzate dagli articoli 6, 7 e 8 del citato regolamento.
Il «piano provvisorio di protezione» è una misura contingente, attuata di solito nell’immediatezza dell’avvio della collaborazione, che può avere il contenuto, e le modalità attuative, sia delle speciali misure di protezione che del programma speciale di protezione.
Le «speciali misure di protezione», attuate dal prefetto del luogo di residenza, prevedono la permanenza del soggetto nella località di origine e misure di vigilanza e di tutela sia del singolo che dei suoi beni. Non sono invece previste forme di assistenza economica, eccetto interventi contingenti volti al reinserimento sociale del testimone.
Il «programma speciale di protezione» che è la più pregnante forma di tutela, attuata dal Servizio centrale di protezione, comporta il trasferimento dell’interessato e di eventuali familiari, in una cosiddetta «località protetta» e, di conseguenza, comporta, oltre che le misure di tutela e di vigilanza, la cosiddetta «mimetizzazione anagrafica» e forme di assistenza economica che assicurino un tenore di vita uguale al precedente. Pag. 13
Le diverse misure tutorie sono adottate, su proposta formulata dal procuratore della Repubblica il cui ufficio procede, dalla Commissione centrale per la definizione e applicazione delle speciali misure di protezione istituita ex articolo 10 del decreto legge 15 gennaio 1991, n. 8, «composta da un Sottosegretario di Stato all’interno che la presiede, da due magistrati e da cinque funzionari e ufficiali».
La loro attuazione è demandata, invece, a diversi organismi a seconda della tipologia di misura. Qualora siano disposte le speciali misure di protezione, queste sono determinate e attuate dal prefetto del luogo di residenza del testimone di giustizia e sono eseguite a cura delle forze di polizia territoriali. Qualora, invece, si applichi il programma speciale di protezione, l’attuazione è rimessa al Servizio centrale di protezione – disciplinato dall’articolo 14 del decreto legge 15 gennaio 1991, n. 8 – che è una struttura interforze istituita nell’ambito del dipartimento di pubblica sicurezza del Ministero dell’interno, articolata in due sezioni, l’una sui collaboratori di giustizia e l’altra sui testimoni di giustizia, dotata di un corpo centrale, con sede a Roma, e di nuclei periferici ripartiti sul territorio, i cosiddetti nuclei operativi di protezione (NOP). L’esecuzione materiale dei compiti di vigilanza e sicurezza in località protetta, è rimessa anche stavolta agli organi di polizia territoriale.
Ulteriori norme sono state emanate al fine di assicurare il reinserimento sociale del testimone di giustizia.

  Con il decreto ministeriale 13 maggio 2005, n. 138, intitolato «Misure per il reinserimento sociale dei collaboratori di giustizia e delle altre persone sottoposte a protezione, nonché dei minori compresi nelle speciali misure di protezione» viene regolamentata e garantita la conservazione del posto di lavoro.

  In particolare:
per i testimoni dipendenti pubblici ammessi alle speciali misure di protezione in località di origine, se vengono trasferiti in comuni diversi da quelli di residenza, è assicurata la ricollocazione presso altre sedi o altri enti pubblici;
per i testimoni dipendenti pubblici ammessi al programma speciale di protezione in località protetta, è garantita la collocazione in aspettativa retribuita;
per testimoni dipendenti privati ammessi alle speciali misure di protezione in località di origine – che, per ragioni di sicurezza, non possono proseguire l’attività lavorativa – e per quelli ammessi al programma speciale di protezione in località protetta, è mantenuto il posto di lavoro con sospensione degli oneri retributivi e previdenziali a carico del datore di lavoro e vengono rimborsati eventuali contributi volontari versati dai testimone di giustizia.

  Inoltre, con il decreto legge 31 agosto 2013, n. 101, convertito dalla legge 30 ottobre 2013, n. 125, è stata inserita la lettera e-bis) all’articolo 16 ter citato, che conferisce il diritto «ad accedere (…) ad un programma di assunzione in una pubblica amministrazione con Pag. 14qualifica e funzioni corrispondenti al titolo di studio e alle professionalità possedute, fatte salve quelle che richiedono il possesso di requisiti specifici». La norma, però, ancora non ha trovato attuazione.

  La materia del cambiamento delle generalità per la protezione di coloro che collaborano con la giustizia è contenuta nel decreto legislativo del 29 marzo 1993, n. 119, mentre le modalità di partecipazione alle udienze dei collaboratori e testimoni di giustizia e di quanti hanno ottenuto il cambiamento di generalità, sono previste negli articoli 147 bis e 147 ter delle norme di attuazione del codice di procedura penale.

3. I dati acquisiti nel corso dell’inchiesta parlamentare.

  L’attività di inchiesta parlamentare sul sistema di protezione dei testimoni di giustizia si è estrinsecata attraverso numerose audizioni, svolte sia in seduta plenaria dalla Commissione, sia dal V Comitato («Vittime di mafia, testimoni di giustizia e collaboratori di giustizia»), di soggetti, pubblici e privati, che, a vario titolo, potevano fornire un contributo sulla materia oggetto di analisi. In particolare, sono stati sentiti otto testimoni di giustizia, a campione o in accoglimento della loro istanza, la cui audizione è avvenuta nel corso di sedute segrete del V Comitato.
Sono stati auditi anche i rappresentanti degli organi istituzionali che intervengono, secondo le rispettive competenze, nel procedimento di applicazione delle misure tutorie speciali o nella loro attuazione: la Commissione ha svolto l’audizione del Viceministro dell’interno, Filippo Bubbico, presidente della Commissione centrale per la definizione e applicazione delle speciali misure di protezione; il vice direttore generale della pubblica sicurezza, prefetto Francesco Cirillo; in un secondo momento, è stato audito presso il V Comitato della Commissione il colonnello Iacopo Mannucci Benincasa, quale rappresentante delegato della stessa Commissione centrale; sempre presso il V Comitato sono stati auditi il generale Sergio Pascali, direttore del Servizio centrale di protezione, e il dott. Maurizio de Lucia – che è, al contempo, uno dei magistrati che compongono la Commissione centrale – quale rappresentante delegato della Direzione nazionale antimafia.
Anche diversi rappresentanti di associazioni hanno fornito il loro contributo alla Commissione parlamentare d’inchiesta, come, ad esempio, Ivan Lo bello, vice presidente di Confindustria, Antonello Montante, presidente di Confindustria Sicilia, Daniele Marannano e Salvatore Caradonna, rispettivamente presidente e avvocato dell’associazione antiracket e antiusura «Addiopizzo», il presidente onorario della Federazione delle associazioni antiracket e antiusura italiane (FAI), Tano Grasso, Nadia Furnari, membro del consiglio direttivo nazionale dell’«associazione Antimafie Rita Atria», Don Marcello Cozzi, vicepresidente nazionale dell’associazione «Libera». Giovanna Fronte e Vincenza Rando sono state invece audite in qualità di avvocati con particolare esperienza in materia di testimoni di giustizia.Pag. 15
La Commissione ha anche acquisito una corposa documentazione – d’ufficio oppure di volta in volta depositata nel corso delle citate audizioni o fatta pervenire successivamente dagli auditi per l’approfondimento di taluni temi – consistente, in sostanza, in relazioni a carattere generale sul decreto legge 15 gennaio 1991, n. 8, e sulle prassi applicative, in dati statistici, in schede inerenti a singole posizioni di testimoni.
L’attività di inchiesta si è fatta carico, altresì, di esaminare gli studi già svolti sul medesimo argomento nella passate legislature, come, ad esempio, la «Relazione sui testimoni di giustizia» approvata il 19 febbraio 2008, nella XV legislatura, dalla Commissione parlamentare d’inchiesta (Doc. XXIII, n. 6) e che sarà più volte citata; le risultanze rassegnate dal Ministro dell’interno nelle relazioni semestrali sui programmi di protezione, sulla loro efficacia e sulle modalità generali di applicazione, redatte ai sensi dell’articolo 16 del decreto legge 15 gennaio 1991, n. 8; l’orientamento giurisprudenziale che emerge dalle più recenti sentenze del Tribunale amministrativo regionale del Lazio; le prassi applicative contenute nelle cosiddette delibere di massima della Commissione centrale di cui all’articolo 10 del decreto legge 15 gennaio 1991, n. 8.

3.1 – I dati acquisiti attraverso le audizioni dei testimoni di giustizia

  Le audizioni dei testimoni di giustizia, come si accennava, sono state svolte nel corso di diverse sedute segrete del V Comitato. Pur non potendo riportare lo specifico contenuto delle loro dichiarazioni, è però possibile tracciare un profilo delle generali problematiche emerse che, lungi dall’essere segrete, sono state ampiamente analizzate nella citata «Relazione sui testimoni di giustizia» e, comunque, ampiamente diffuse dai mezzi di comunicazione che, in diverse occasioni, hanno riportato e pubblicizzato le criticità del sistema di protezione denunciate dagli stessi testimoni.

  Problematiche che possono essere sintetizzate come segue:
1) deficit informativo circa i diritti e doveri connessi con l’assunzione dello status di testimone: si lamenta l’insufficiente azione informativa svolta dagli organi istituzionali che intervengono, a vario titolo, nel procedimento di protezione, nonché la non corrispondenza tra le condizioni di vita prospettate e quelle realizzate;
2) sistemazioni logistiche carenti: si lamenta che le abitazioni offerte, specie in occasione delle prime sistemazioni in località protetta, sono spesso degradate e prive delle elementari condizioni igieniche o che, per lunghi periodi, si è collocati in strutture alberghiere fatiscenti;
3) inadeguatezza delle misure di protezione poste in essere a tutela dei testimoni sia in località protetta che in quella di origine, spesso riconducibili alla ridotta disponibilità di mezzi e uomini, alla saltuarietà della vigilanza, alla scarsa professionalità delle forze Pag. 16dell’ordine, alla utilizzazione di immobili già impiegati per collaboratori di giustizia e la cui pregressa destinazione era nota;
4) mancata attuazione della norma che prevede che al testimone di giustizia vada assicurato il pregresso tenore di vita;
5) condizione di isolamento, sia in località protetta che in località di origine, e mancanza di punti di riferimento e di supporto;
6) inadeguatezza del sistema di reinserimento socio-lavorativo, specie per imprenditori e commercianti;
7) disparità di trattamento economico, in base alle disposizioni di legge, tra testimoni sottoposti alle speciali misure e quelli sottoposti al programma speciale di protezione;
8) disparità di trattamento, da parte della Commissione centrale, tra testimoni di giustizia nelle medesime condizioni;
9) lentezze ed eccessiva burocratizzazione per rispondere alle più svariate esigenze: ad esempio, si sono lamentate lungaggini sia per l’assistenza sanitaria, sia per la regolarizzazione delle posizioni previdenziali; sia per la sottoposizione alla visita medico-legale presso l’INPS ai fini del riconoscimento del danno biologico;
10) difficoltà connesse all’utilizzo dei documenti di copertura e alla procedura per il cambiamento delle generalità.

3.2 – I dati acquisiti dalle audizioni dei rappresentanti degli organi istituzionali.

  Una visione similare del sistema, seppure non sovrapponibile, è emersa dalle audizioni, e dalle relazioni depositate, dei rappresentati degli organi istituzionali deputati a intervenire nel procedimento di protezione. Dato questo di assoluto rilievo. Infatti, al contrario di quanto segnalato nelle precedenti inchieste parlamentari – sia nella XIV legislatura che nella XV legislatura – in cui si parlava di «visioni differenti» tra testimoni di giustizia e istituzioni, oggi si può affermare che talune problematiche, almeno quelle di maggiore rilievo, sono state metabolizzate dagli apparati amministrativi che, in ragione di ciò, hanno individuato nelle prassi applicative correttivi idonei a smussare le criticità rilevate e, anzi, auspicano all’unisono mutamenti della legislazione in materia.
In particolare, dalle audizioni del Viceministro Bubbico e del colonnello Mannucci Benincasa, è emerso il pregevole lavoro svolto, nel tempo, dalla Commissione centrale che, dopo la sperimentazione ventennale del sistema di protezione, tende a trovare soluzioni che attuino i principi ispiratori del dettato normativo rimasto, come meglio si dirà, incompiuto. Circa le criticità del sistema, risolvibili in buona parte soltanto con interventi legislativi, la Commissione centrale ha segnalato:
la necessità di ridefinire i requisiti del testimone di giustizia, in modo da distinguere e riservare un diverso trattamento a coloro, sempre più numerosi, che, non essendo completamente estranei al Pag. 17contesto criminale, possono definirsi border line, trovandosi su una via mediana tra la figura del testimone e quella del collaboratore di giustizia;
la necessità di privilegiare per i testimoni di giustizia, salvo casi di eccezionale pericolo, l’applicazione delle speciali misure in località di origine, in luogo del radicale e invasivo programma speciale in località protetta;
la necessità di introdurre sistemi di rafforzamento della tutela e dell’assistenza economica per i testimoni di giustizia rimasti in località di origine;
la necessità di pensare alla costruzione delle misure di protezione in maniera coerente con la storia personale del testimone, in relazione alle specifiche caratteristiche individuali e ai diversificati contesti ambientali di provenienza.

  Il direttore del Servizio centrale di protezione, generale Sergio Pascali, ha rappresentato che, nonostante le oggettive e a volte insuperabili difficoltà che si incontrano nell’attuazione dei programmi protezione, il sistema adottato dallo Stato italiano può definirsi «invidiabile» al confronto di quello di altri Paesi. In effetti, può concordarsi sin d’ora sul fatto che si è consolidata la specializzazione del personale del Servizio centrale di protezione, sicché episodi di scarsissima professionalità (come quelli in cui i testimoni sono stati trattati alla stregua di delinquenti, con l’adozione di metodi «polizieschi» o con le notifiche di atti eseguite nottetempo), appaiono oggi isolati e non indicativi di un intero sistema che, invece, è in positiva evoluzione. Tuttavia, nonostante la suddetta premessa, lo stesso generale Pascali ha segnalato conformemente agli esponenti della Commissione centrale, la necessità di ottimizzare il sistema anche attraverso nuove previsioni legislative.
Una particolare riflessione è stata riservata alla possibilità di reinserimento lavorativo che diventa più arduo in ragione della crisi occupazionale, dell’età medio-alta del testimone di giustizia, spesso dell’incapacità di costui di riavviare un lavoro diverso dal precedente oppure dei problemi connessi alla mimetizzazione anagrafica. E, a tal proposito, è stata evidenziata la necessità che:
i testimoni di giustizia rimangano in loco dove possono continuare a svolgere le pregresse attività lavorative, altrimenti destinate alla chiusura;
gli enti pubblici contribuiscano ad aiutare i testimoni di giustizia in loco nel reinserimento lavorativo;
si organizzi un generale sistema di protezione che possa avvalersi della collaborazione di Stati esteri, in modo da consentire l’utilizzazione di fasce di territorio più ampie e godere di ulteriori opportunità lavorative;
la capitalizzazione, che prelude alla risocializzazione, spesso investita erroneamente dai beneficiari o comunque conferita a soggetti non più in grado di svolgere attività lavorativa, possa essere sostituita Pag. 18con forme di vitalizio che consentano al testimone di giustizia di superare i problemi quotidiani di sussistenza.

  Il sostituto procuratore presso la Direzione nazionale antimafia, dottor Maurizio De Lucia, a sua volta, oltre a evidenziare alcune delle criticità citate, ha contribuito all’inchiesta parlamentare riferendo, attraverso una riflessione più ampia, che si vanno sperimentando sistemi più efficaci che consentono di evitare, a monte, che un dichiarante diventi un testimone di giustizia con tutte le conseguenze che ciò comporta. Uno degli esempi riportati – poi confermati e dettagliati dal presidente dell’associazione «Addiopizzo», ma richiamati anche dal colonnello Mannucci Benincasa – riguarda la realtà palermitana in cui l’associazionismo ha consentito, attraverso forme di protezione sociale, di evitare la solitudine degli imprenditori denuncianti, tanto che, nella gran parte dei casi, non è stato necessario ricorrere nemmeno a forme di tutela ordinaria.
Inoltre, per i casi eccezionali in cui non può farsi a meno di ricorrere ai sistemi speciali di protezione, il dott. De Lucia ha evidenziato la necessità di studiare forme di flessibilità tali da permettere, ma in ossequio a criteri oggettivi e generali, la personalizzazione delle misure. Nella stessa ottica, ha segnalato la necessità di prevedere percorsi differenziati tra le vittime dell’estorsione e quelle dell’usura. Queste ultime, infatti, per il peculiare rapporto instaurato con l’autore del delitto e per l’alta probabilità statistica di ricaduta nella richiesta di ulteriori prestiti a natura usuraria, necessitano di un trattamento specifico.

3.3 – I dati acquisiti dalle audizioni dei rappresentanti delle associazioni.

  I rappresentanti dell’associazione «Addiopizzo», riferendo sulla loro esperienza siciliana, hanno evidenziato che l’adesione alla loro associazione da parte di diversi imprenditori e la contestuale attività svolta dall’associazione medesima, hanno consentito di ottenere risultati, fino a qualche tempo prima inimmaginabili, e che consentono di pensare a un sistema in cui la figura del testimone di giustizia può essere meno ricorrente(3).
In sostanza, hanno evidenziato che:
il numero di denunce da parte degli imprenditori vittime di estorsione è cresciuto nel corso degli anni seppure si tratti di una esigua quantità rispetto al reale;
l’esposizione, presso gli esercizi commerciali, del coupon di adesione all’associazione «Addiopizzo», nonché le tempestive denunce di richieste estorsive che attivano immediatamente la presenza delle forze dell’ordine, si sono spesso rivelati sistemi deterrenti per l’associazione mafiosa siciliana che ha abdicato alla pretesa impositrice e ha omesso azioni di rappresaglia; circostanze queste confermate da alcuni collaboratori di giustizia; Pag. 19
alcune strategie adottate, come quella del cosiddetto «consumo critico» – che incentiva l’acquisto di beni e servizi presso gli imprenditori denuncianti – hanno contribuito ad evitare che l’impresa di colui che ha accusato cosa nostra subisse deterioramenti;
che si vanno sperimentando forme di cosiddetta «denuncia collettiva», secondo cui più imprenditori del medesimo contesto territoriale si accordano per denunciare contemporaneamente le estorsioni subite o tentate, in modo che da evitare la sovraesposizione del singolo e di porre l’associazione mafiosa nell’impossibilità di realizzare azioni ritorsive ad ampio raggio;
che l’associazione «Addiopizzo» si è fatta carico di sorreggere gli imprenditori in occasione sia della denuncia che delle successive fasi processuali, sostenendoli ed evitandone l’isolamento;
che nella gran parte dei casi, l’imprenditore che denuncia rimane «libero» nel senso che non necessita di essere protetto, nemmeno con misure di tutela ordinarie;
che i pochissimi casi in cui si è dovuto ricorrere al sistema di protezione speciale si sono verificati o per peculiarità caratteriali del soggetto o perché, nella conduzione delle indagini, nonostante la professionalità degli investigatori, si è verificata la sovraesposizione del denunciante.

  Il presidente onorario della Federazione delle associazioni antiracket e antiusura italiane (FAI), Tano Grasso, concorda sugli evidenti progressi nella lotta al racket attraverso il modello associativo: «Se si confronta la situazione di oggi con quella del 1990, siamo in un altro mondo. Allora la prospettiva di un imprenditore che non voleva piegarsi erano la solitudine, il disprezzo dei propri colleghi e spesso la morte, come ci ricorda la vicenda di Libero Grassi. (…) oggi la situazione è notevolmente cambiata. Intanto c’è il modello che opera dal 1990, ossia l’associazione antiracket, e che da Capo d’Orlando si è costantemente diffuso in tutte le regioni a radicamento mafioso. L’antiracket ha risolto concretamente sul campo i principali problemi di un imprenditore non acquiescente: la solitudine, l’isolamento, la sicurezza per la vita e per l’azienda. Questo modello si è diffuso perché ha funzionato. Migliaia di commercianti hanno denunciato il pizzo attraverso le associazioni e mai nessuno è stato oggetto di rappresaglia alla persona» (4).
Anche gli esponenti della Confindustria e di Confindustria Sicilia, hanno sperimentato forme per spronare le denunce (come la «sanzione sociale», cioè l’espulsione dalla Confindustria per gli associati che pagavano il pizzo o lo strumento premiale del «rating di legalità») e far sì che il loro numero crescente renda l’imprenditore che accusa la mafia meno solo e meno esposto al pericolo. Pag. 20
Don Marcello Cozzi, vicepresidente nazionale dell’associazione Libera, pur avendo incentrato la sua audizione sui collaboratori di giustizia ha rilevato come il tema dell’inserimento lavorativo e sociale, da effettuare in tempi molto più brevi di quanto avvenga attualmente, sia comune anche ai testimoni di giustizia. Come pure la necessità di poter contare su riferimenti all’interno del Servizio Centrale di Protezione stabili ed affidabili.
Nadia Furnari, infine, per l’«associazione Antimafie Rita Atria» ha offerto una serie di riflessioni:
la necessità di differenziare i testimoni di giustizia border line che, cioè, non sono completamente terzi rispetto al contesto criminale su cui riferiscono;
la necessità di istituire la figura di un tutor che accompagni il testimone di giustizia in tutto il suo percorso e funga anche da sostegno psicologico. Ciò, del resto, anche in relazione al fatto che il referente del nucleo operativo di protezione (NOP) è spesso destinato a cambiare a causa dei ripetuti trasferimenti in diverse località protette che vengono imposte al testimone;
la necessità di ripensare alla località protetta come luogo non necessariamente sicuro.

3.4 – I dati acquisiti dalle audizioni degli avvocati di testimoni di giustizia.

  Dalla voce degli avvocati difensori di diversi testimoni di giustizia è emersa, in buona parte, la stessa visione critica già evidenziata dai diretti interessati, pur priva del pathos del coinvolgimento personale. Gli elementi segnalati in audizione dall’avvocato Giovanna Fronte e dall’avvocato Vincenza Rando possono essere così riassunti:
mancanza di adeguate informazioni e spiegazioni circa i diritti e doveri connessi allo status di testimone di giustizia;
mancanza di coinvolgimento diretto, nella scelta del sistema tutorio e delle sue modalità, del testimone di giustizia che si sente un estraneo alla propria vita;
senso di abbandono e isolamento dei testimoni di giustizia i quali, pertanto, tendono a vittimizzarsi, a individuare la causa del loro malessere nella scelta collaborativa e a vedere le istituzioni come controparte;
mancanza di adeguato sostegno tecnico al testimone rimasto in località di origine, che spesso è costretto a chiudere l’impresa;
durata eccessiva dei programmi speciali di protezione nel cui contesto, per anni, si rimane senza un’attività lavorativa o, comunque, senza un impegno di altra natura, come, ad esempio, nel settore del volontariato;
eccessiva rigidità nella gestione dei testimoni di giustizia ai quali sono negate risposte immediate o viene impedito il compimento di azioni: si è evidenziato, ad esempio, il caso di un testimone al quale non è stato permesso di partecipare al funerale di un congiunto;
mancanza di idonee forme di «accompagnamento» del testimone di giustizia sia al momento dell’ingresso nel sistema tutorio, sia Pag. 21durante il periodo di sottoposizione alle misure di protezione, sia all’atto della cessazione delle stesse.

3.5 – I dati statistici.

  In alcune delle relazioni acquisite dalla Commissione, sono stati riportati i dati statistici generali che offrono la misura complessiva del fenomeno della collaborazione e della connessa attivazione del sistema di protezione. Per facilità di consultazione, si riportano di seguito i grafici estrapolati dalla «Relazione sui programmi di protezione, sulla loro efficacia e sulle modalità generali di applicazione per coloro che collaborano con la giustizia» (Doc. XCI, n. 4), relativa al secondo semestre 2013, che il Ministro dell’interno presenta semestralmente al Parlamento, ai sensi dell’articolo 16 del decreto legge 15 gennaio 1991, n. 8:

Andamento numerico di testimoni di giustizia e collaboratori di giustizia dal 31/12/1995 al 31/12/2013

Andamento numerico dei familiari protetti dal 31/12/1995 al 31/12/2013

Pag. 22

Pag. 23  Sempre con riferimento ai dati statistici, la Commissione centrale ha trasmesso alla Commissione parlamentare d’inchiesta una tabella (5), di seguito riportata, rappresentante il complesso dei contenziosi tra i testimoni di giustizia e la pubblica amministrazione. Questi ulteriori dati statistici vanno analizzati anche alla luce di talune delle più recenti sentenze del Tribunale amministrativo regionale del Lazio a cui prima si faceva riferimento.
In via generale, si può affermare che la giurisprudenza amministrativa ha assecondato l’orientamento restrittivo della Commissione centrale nell’interpretazione dei requisiti di accesso allo status di testimone di giustizia, mentre talvolta ha avuto una visione più ampia del ristoro economico, non esitando, comunque, a rigettare talune richieste 
(6).

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4. La figura del testimone di giustizia.

  L’articolo 16 bis del decreto legge 15 gennaio 1991, n. 8, che ha introdotto la figura del testimone di giustizia, ha indicato i requisiti per il conseguimento di tale status, oltre a quello fondamentale della sussistenza, per il dichiarante, di una grave e concreta situazione di pericolo.
Dal punto di vista soggettivo, inerente cioè alla posizione nel procedimento penale e alla pericolosità del dichiarante, la norma, al primo comma, ha stabilito che possono essere testimoni «coloro che assumono, rispetto al fatto o ai fatti delittuosi in ordine ai quali rendono le dichiarazioni, esclusivamente la qualità di persona offesa dal reato, ovvero di persona informata sui fatti o di testimone, purché nei loro confronti non sia stata disposta una misura di prevenzione, ovvero non sia in corso un procedimento di applicazione della stessa».
Dal punto di vista oggettivo, inerente invece al contenuto e alla qualità delle propalazioni rese, la medesima norma, al secondo comma, ha disposto che le dichiarazioni possono riferirsi a qualsiasi tipologia di reato e che è sufficiente che siano intrinsecamente attendibili, cioè prive di riscontri esterni.
Questa definizione certamente si armonizza con i principi dell’ordinamento giuridico: crea una correlazione tra il testimone di giustizia e la sua qualifica processuale e sgrava il cittadino, che adempie ai doveri civici, dall’onere di contribuire, con le sue dichiarazioni, al contrasto alla criminalità organizzata. Tuttavia, è proprio a partire da essa che l’impianto normativo si è rivelato scollegato dalla realtà e fragile rispetto a possibili strumentalizzazioni.

4.1 – I parametri soggettivi.

  In primo luogo, per il citato articolo 16 bis, può essere testimone di giustizia colui che, con riguardo al delitto su cui riferisce, è terzo o è vittima. Tuttavia, l’esperienza applicativa degli ultimi vent’anni ha dimostrato che tale descrizione, quasi romantica, è molto distante dall’id quod plerumque accidit.

  Il caso del testimone-terzo, incarnato, in maniera esemplare, da Pietro Nava che ebbe ad assistere all’omicidio del giudice Rosario Livatino, si è rivelato statisticamente inusuale: a partire dall’emanazione del decreto legge 15 gennaio 1991, n. 8, molto meno di una decina sono stati i testimoni che hanno avvertito disinteressatamente l’incombente dovere di offrire il loro contributo all’accertamento di gravi fatti appresi occasionalmente.
Ma anche il testimone-vittima, che già è un minus rispetto al testimone-terzo poiché, a differenza di quest’ultimo, è portatore di un interesse personale all’accertamento dei fatti, si è rivelato poco frequente, almeno nell’accezione pura di chi meramente subisce un delitto. Salvo casi eccezionali e peculiari, infatti, è improbabile che una vittima occasionale (ad esempio colui che viene costretto a fare da prestanome), con una conoscenza limitata al solo reato che ha patito – e che, in teoria, ha prontamente denunciato, sì da interrompere Pag. 25ogni altra forma di contatto con l’autore del delitto – si trovi in una situazione di tanto grave pericolo da non potere essere arginata con le misure di tutela ordinarie, di competenza del comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica.
La prassi consente invece di affermare che, nella gran parte dei casi, ricorre il testimone di giustizia che, da più parti, viene definito border line 
(7), testimone cioè che, in realtà, con il suo apporto, mette in crisi il modello mafioso e, di conseguenza, versa in gravi situazioni di pericolo.
Si tratta, per lo più, di imprenditori che, nel tempo, hanno instaurato con l’associazione mafiosa, autrice di delitti in loro danno, un rapporto che è o potrebbe apparire ambiguo. Ad esempio, in alcuni casi, l’estorsione non si realizza perché preceduta da atti intimidatori, ma perché la vittima, per cultura o condizionamento ambientale, assume l’iniziativa e richiede essa stessa al referente mafioso, l’«autorizzazione» per avviare un’attività commerciale o realizzare un’opera, impegnandosi al pagamento del «pizzo». Altre volte, indipendentemente dalla sua genesi, si crea una sorta di contratto sinallagmatico, seppure sbilanciato e non propriamente consensuale, da cui l’imprenditore trae, o ritiene di trarre, una serie di vantaggi: la protezione dei cantieri, l’aiuto presso le pubbliche amministrazioni o presso le banche, l’adempimento di fornitori e di clienti, la tutela dalla concorrenza sleale, l’accaparramento di lavori in luogo di altre imprese. Ragione per cui la relazione, all’apparenza, non sempre è fondata su posizioni di forza ma su «un meccanismo morbido che in qualche modo fa sì che la vittima sia poco chiaramente tale» 
(8). Ragione per cui, inoltre, può accadere che i tempi della denuncia siano ritardati proprio per questo (e non per il comprensibile timore di ritorsione, come di solito avviene) e, anzi, talvolta coincidano con lo stato di decozione dell’impresa riguardo al quale la via della testimonianza appare un commodus discessus. In ogni caso, però, la protrazione nel tempo del rapporto, consente alla vittima di entrare in contatto con una pluralità di appartenenti all’associazione mafiosa fino a conoscerne, e poi riferirne, la struttura, le modalità operative e i ruoli, così dando luogo al paradosso che, tanto più consistente sarà stata ciò che viene oggi definita contiguità con gli ambienti criminali, tanto più alta sarà la probabilità, in ragione dell’eccezionale situazione di pericolo, di entrare nelle file dei testimoni di giustizia.
A queste complesse figure, è stata assimilata quella, definita anch’essa come border line, delle «persone legate da vincoli di Pag. 26parentela con soggetti mafiosi o contigui a gruppi malavitosi» 
(9). Si tratterebbe, in questo caso, di dichiaranti provenienti da nuclei familiari composti, in tutto o in parte, da persone inserite o «vicine» all’associazione mafiosa, i quali, dissociandosi, rivelano il cospicuo patrimonio di conoscenze acquisito nello stesso ambito parentale. Dichiaranti che, però, per lungo tempo, hanno tratto benefici, economici e sociali, dall’appartenenza dei loro congiunti ai gruppi criminali, e ai quali ultimi hanno indirettamente contribuito quantomeno in forma di sostegno culturale (10).
In linea teorica, il secondo requisito soggettivo previsto dall’articolo 16 bis, attinente latu sensu alla pericolosità sociale, per come formulato – «purché nei loro confronti non sia stata disposta una misura di prevenzione, ovvero non sia in corso un procedimento di applicazione della stessa» – non incide particolarmente sulla qualificazione dei testimoni oggi definiti border line che, difficilmente, così come descritti, sono destinatari di misure di prevenzione.
La Commissione centrale, però, nelle cosiddette «delibere di massima», ha stabilito che il formale parametro dell’assenza di misure di prevenzione, vada interpretato in senso sostanziale, cioè come assenza di pericolosità sociale del dichiarante 
(11). Ciò perché, si ritiene, che l’ordinamento considerato nel suo complesso – sia per il riferimento dell’articolo 16 bis citato alle misure di prevenzione, collegate appunto alla pericolosità sociale, sia per l’introduzione in altre leggi di criteri limitativi all’accesso dei benefici statali, latu sensu attinenti alla pericolosità sociale – consenta e imponga una lettura più ampia del criterio. Del resto, se così non fosse, si rischierebbe, secondo la Commissione centrale, che le stesse associazioni mafiose possano trarre vantaggio, diretto o indiretto, dalle misure di carattere economico previste per la testimonianza (12). Di conseguenza, si è affermato, in termini pratici, che non possono conseguire lo status di Pag. 27 testimone coloro che si siano resi responsabili di reati indicativi di pericolosità sociale o che siano contigui ai contesti criminali. Contiguità che, per tale impianto, va misurata secondo i parametri stabiliti per i familiari delle vittime della criminalità organizzata i quali, appunto, possono godere dei benefici di legge a condizione che non risultino legati da rapporti di parentela o convivenza con soggetti sottoposti a misure di prevenzione o a procedimenti penali per delitti di stampo mafioso ovvero risultino «del tutto estranei» ad ambienti e rapporti delinquenziali (13).
L’innovativa impostazione è stata ampiamente avallata dal giudice amministrativo che, in espressa applicazione della delibera di massima del 30 luglio 2009 della Commissione centrale, non ha riconosciuto lostatus, ad esempio, a colui che era stato condannato per detenzione di arma da fuoco avvenuta prima dell’accesso al programma speciale 
(14) o a colui che, tra l’altro, era coniugato con una donna imparentata con «esponenti di spicco» di un sodalizio criminoso (15).
Comincia, dunque, a prendere corpo una sorta di tertium genus, una figura a metà tra il testimone e il collaboratore di giustizia che, come si prospetta, dovrebbe ottenere una tutela economica diversa 
(16).
Il tentativo della Commissione centrale e del Tribunale amministrativo, rivolto a riconoscere lo status di testimone di giustizia a chi sia effettivamente terzo o effettivamente vittima, va sicuramente apprezzato.
Ma non può ignorarsi che i requisiti attualmente applicati non sono, innanzitutto, aderenti al vigente dettato legislativo, abbondantemente sconfinato, la cui ratio, peraltro, si sottrae stavolta ad ogni possibile critica. Invero, nell’articolo 16 bis citato, il legislatore, pur potendo ricorrere al più ampio parametro della pericolosità sociale, lo ha invece chiaramente omesso per evitare che un organismo amministrativo e non giurisdizionale potesse utilizzare un criterio così largamente discrezionale. Dunque, proprio al fine di ancorare la procedura a dati oggettivi, ha inserito quella presunzione di pericolosità, sottratta ad ogni altro apprezzamento.
In secondo luogo, i criteri di valutazione introdotti dalla Commissione centrale, non appaiono, allo stato, del tutto condivisibili. Pag. 28Quello inerente l’assenza di condanne per reati rivelanti la pericolosità sociale, se non ulteriormente puntualizzato – circa la connessione o meno dei delitti commessi con quelli su cui il dichiarante riferisce e circa la definitività o meno del provvedimento giurisdizionale – affida all’organo amministrativo un potere di pregiudizio che va oltre l’intrinseco significato di una sentenza. Allo stesso tempo, i criteri tratti dalla legislazione sui familiari delle vittime di mafia, cioè da una normativa in cui legislatore può subordinare la concessione di un beneficio all’assenza di situazioni di «sospetto», non appaiono automaticamente estensibili ai testimoni di giustizia che, invece, sono destinatari, non di concessioni, ma del riconoscimento dei loro diritti che possono essere menomati dalla testimonianza il cui valore è sconnesso dalla probità di chi la rende.
Inoltre, anche sotto altri profili, il superstite di una vittima inserito in una famiglia di mafiosi è ben diverso dal testimone che si dissocia dalla famiglia di mafiosi: nel primo caso la parentela rileva come non meritoria del beneficio, nel secondo caso è proprio la non meritoria parentela che spinge il soggetto a dissociarsi.
Oppure, la nozione di «estraneità» ad ambienti e rapporti delinquenziali, se non correttamente precisata, può portare a spingere l’interpretazione fino a richiedere il profilo di un cittadino che non abbia mai commesso attività né illecita né a-lecita, e a valorizzare in maniera miope il vissuto pregresso, nonostante il quale, però, si può egualmente adempiere, lealmente e in assenza di utilitarismi, al dovere della testimonianza.
In altri termini, alle figure definite border line non può essere negato, come invece avviene, lo status di testimone di giustizia in base a criteri eccessivamente discrezionali, come quello della pericolosità sociale (che peraltro, come detto, viene desunta da sentenze di condanna pregresse per fatti sconnessi rispetto a quelli denunciati) o generici, come quello della «estraneità» ai contesti criminali (perché un imprenditore che per anni è assoggettato all’associazione mafiosa, nonostante i ripetuti contatti con la stessa, rimane egualmente vittima) o quello del rapporto di parentela del dichiarante con soggetti legati ad ambienti mafiosi (in cui, è proprio tale stretto legame che determina la necessità di prendere le distanze).
D’altra parte, i rischi evidenziati dalla Commissione centrale circa la possibilità che il sistema di protezione possa risolversi in un beneficio per le stesse mafie, sono così marginali, e comunque ovviabili, da non potere rappresentare una situazione generale di allarme che giustifichi l’innalzamento di barriere 
(17).
Si concorda, certamente, sulla necessità, già del resto evidenziata nella citata «Relazione sui testimoni di giustizia», di ridefinizione dei Pag. 29 requisiti in modo da ottenere una selezione dei testimoni più fedele ai principi 
(18), che la sola qualifica processuale non consente. Necessità che, anzi, si rivela impellente dovendosi evitare, appunto, che si giunga per via interpretativa, e non per precisa scelta legislativa, allo spostamento di una linea di confine o, addirittura, alla creazione di un tertium genus.
Si ritiene, quindi, che i nuovi individuabili requisiti debbano rimanere collegati, per quanto possibile, a dati oggettivi. A tal fine, si ritiene necessario valorizzare, oltre a quanto già previsto attualmente dal legislatore, anche un altro parametro, che potremmo definire come la «terzietà del dichiarante» rispetto sia al contesto che ai fatti denunciati. in particolare, «terzietà» pensata come un criterio meno aleatorio rispetto alla generica pericolosità e con un quid pluris rispetto alla generica «estraneità» (criteri questi ai quali si fa attualmente ricorso).

  «Terzietà» che va valutata dalla procura proponente – con il parere, da rendere obbligatorio, della Direzione nazionale antimafia – attraverso una serie di indici da considerare simultaneamente e la cui contestuale sussistenza può rappresentare un più concreto sintomo di estraneità del dichiarante all’associazione mafiosa. ad esempio:
l’assenza di precedenti condanne o di procedimenti penali pendenti riguardanti, però, non qualsiasi delitto come accade oggi, ma delitti che, secondo la normativa processuale, possono definirsi collegati o connessi con quelli oggetto delle dichiarazioni. Rimangono, ovviamente, esclusi quegli eventuali reati commessi dal dichiarante poiché costretto o indotto dalla stessa organizzazione denunciata, in quanto rappresentano, invece, un’ulteriore manifestazione della situazione di assoggettamento al potere mafioso;
la genesi del rapporto del dichiarante con l’associazione criminale, che, anche se instaurato su iniziativa della stessa vittima, rappresenti pur sempre la conseguenza di una situazione di assoggettamento o di «condizionamento ambientale»;
l’eventuale ritardo nella denuncia rispetto ai fatti dipendente dal timore o dallo stato di soggezione;
l’assenza di condotte, collegate al contesto e ai fatti oggetto della testimonianza, che astrattamente sono penalmente rilevanti ma che non hanno raggiunto la soglia della punibilità: ad esempio, le condotte tipiche del partecipe mafioso, soprattutto dal punto di vista dell’elemento soggettivo del reato, che essendo sporadiche o occasionali sono insufficienti a integrare il delitto di cui all’articolo 416 bis del codice penale;
l’assenza di motivi esclusivamente utilitaristici della collaborazione, intendendosi per tali la ricerca, attraverso il sistema di protezione, di speculazioni economiche, da distinguere nettamente dalla ricostituzione dei diritti patrimoniali del testimone di giustizia.

Pag. 30  In tal modo, pertanto, sarà possibile estrapolare dal novero dei testimoni di giustizia non solo i mafiosi formalmente conclamati come tali – che già da ora, semmai, possono appartenere al novero dei collaboratori di giustizia – ma anche i soggetti che non sono definibili terzi secondo gli indici sintomatici sopra elencati. È chiaro che sarà compito della procura della Repubblica proponente e della Direzione nazionale antimafia, quindi di organi giurisdizionali, evidenziare alla Commissione centrale, come del resto attualmente avviene per i criteri vigenti, l’eventuale sussistenza dei predetti – ma anche di eventuali ulteriori – indicatori.
Tutti gli altri dichiaranti, invece, saranno testimoni di giustizia dovendosi apprezzare, non tanto l’etica della persona, che è a tali fini irrilevante, ma l’etica della condotta di testimonianza.

4.2 – I parametri oggettivi.
Altro requisito fondamentale per il riconoscimento dello «status di testimone» è che il soggetto renda dichiarazioni a valenza processuale nelle forme della denuncia, delle sommarie informazioni o della testimonianza. Non basterebbe, quindi, una segnalazione informale alle forze dell’ordine, né basterebbe aver subito intimidazioni senza che a ciò segua un percorso collaborativo. Si verserebbe, in tali casi, in situazioni diverse, destinate a essere tutelate attraverso altri strumenti.

4.2.1 – Il contenuto delle dichiarazioni.
Ai sensi del comma 2 dell’articolo 16 bis citato le dichiarazioni del testimone di giustizia possono riguardare qualsiasi reato e non avere le caratteristiche indicate all’articolo 9 del medesimo decreto legge per i collaboratori di giustizia, le cui propalazioni, oltre a vertere su delitti di stampo mafioso e altri tassativamente indicati, devono presentare i caratteri di novità o di completezza, ovvero apparire di «notevole importanza» per le indagini o per la celebrazione del processo.
Nella stessa ottica, e a corollario della disposizione, l’articolo 16 ter, comma 2, del medesimo decreto legge, ha disgiunto le dichiarazioni del testimone di giustizia dal procedimento penale, indipendentemente dal quale, e dei relativi stato e grado, va valutata l’eventuale cessazione del rischio. In sostanza, non è richiesto ai testimoni di giustizia né un rilevante apporto investigativo o processuale, né di riferire su delitti di particolare offensività. Di conseguenza, può anche non sussistere un nesso di causalità tra la dichiarazione e il pericolo. Pericolo che potrebbe, ipoteticamente, derivare da fattori esterni e autonomi: come, ad esempio, l’interesse delle associazioni criminali a punire, dimostrativamente, il «delatore» per la mera delazione e al di là della sua rilevanza.
In effetti, il nostro sistema di protezione accoglie testimoni che non hanno offerto alcun concreto contributo collaborativo 
(19) e, parallelamente, non sono disponibili statistiche, proprio perché per legge ininfluenti, che rappresentino la quantità e la qualità delle Pag. 31condanne ottenute grazie al loro apporto. Si è in presenza di uno dei pochi casi in cui il legislatore del 2001 è riuscito a segnare una netta differenza tra testimoni e collaboratori di giustizia per i quali, invece, è stabilito un contenuto «pericoloso» delle propalazioni e una strettissima concatenazione tra dichiarazioni e pericolo (20).
Si tratta però di disposizioni che danno luogo ad una disparità di trattamento di difficile comprensione e a un sistema di protezione che, pur dovendo riguardare situazioni estreme ed eccezionali, presta il fianco a sovrabbondanti utilizzazioni o ad effetti deleteri per lo stesso testimone di giustizia.
Non è ammissibile, in primo luogo, che le situazioni di rischio «esterno» – sconnesse cioè dal contenuto delle rivelazioni – individuate a tutela dei testimoni, non valgano anche per i collaboratori. La diversificazione, in tal caso, non ha natura economica, né attiene al trattamento, ma riguarda la tutela dell’incolumità dell’individuo che, invece, deve prescindere dai meriti e dalle condotte. Del resto, se tra i possibili rischi esterni si individua, secondo l’esempio prima riportato, quello dell’interesse di un’associazione criminale a punire la «delazione», tale interesse esiste e permane indipendentemente dal «patentino» di testimone o di collaboratore conferito dalla Commissione centrale. Dunque, se questi rischi esterni vi sono, essi devono essere consideratierga omnes, ma se non vi sono – ed è davvero difficile immaginare situazioni di pericolo, sconnesse dalle dichiarazioni e che possano definirsi gravi e concrete – non si può, nel loro nome, costituire la zona franca di ingresso alle misure di protezione per i testimoni di giustizia.
In secondo luogo, già l’individuazione di un pericolo e la misurazione della sua entità, è attività complessa, essendo obiettivamente arduo prevedere e prevenire situazioni di rischio che, come la cronaca insegna, possono manifestarsi all’improvviso persino nei protetti contesti familiari. Ma se a ciò si aggiunge la facoltà di valutare la situazione pericolosa, anche in maniera disgiunta dalla portata dell’accusa, dalla tipologia del reato, dallo stato e grado del procedimento, si dà luogo a un sistema zoppicante in cui aleggiano generici pericoli non meglio identificati e nel quale i provvedimenti di ammissione, revoca e modifica, possono appariresine causa, rivelatori di disparità, alimentatori dei contenziosi amministrativi, e determinare, come meglio si dirà più avanti, una durata spesso lunghissima del sistema di protezione con grave malessere per chi lo subisce. Non è un caso che, come emerso nel corso dell’inchiesta, diversi testimoni di giustizia hanno, inutilmente, preteso, al momento della fuoriuscita dal programma speciale, un certificato di «fine protezione» col quale lo Stato avrebbe dovuto assumersi formalmente la responsabilità della loro cessata tutela. Si è in presenza, probabilmente, di atteggiamenti provocatori di quanti stentano, dopo tanti anni, a ricominciare autonomamente, o che non comprendono le ragioni per cui per altri
(20) Invero, oltre al fatto che le rivelazioni devono concernere specifici gravi delitti e devono essere di notevole importanza per le indagini o per il processo, si è altresì disposto che la situazione di pericolo va valutata tenendo conto anche «dello spessore delle condotte di collaborazione» e «della rilevanza e della qualità delle dichiarazioni rese» e che, per misurare il cessato o il ridotto pericolo ai fini della modifica o della revoca della misura di protezione, bisogna considerare «la fase e il grado in cui si trovano i procedimenti penali nei quali le dichiarazioni sono state rese».
Pag. 32testimoni si proroghi la permanenza nell’apparato protettivo, o che vogliono dimostrare l’inutilità o la stranezza di un sistema che ha causato loro gravi disagi. Pretese di tal genere, però, dimostrano tangibilmente come l’assenza di criteri oggettivi si contrapponga alla certezza del diritto.

4.2.2 – La qualità delle dichiarazioni.

  Il comma 2 dell’articolo 16 bis citato, specifica che le dichiarazioni rese dai testimoni devono avere «carattere di attendibilità» che, secondo la definizione della giurisprudenza penale, si risolve nell’intima credibilità del dichiarante anche in assenza di riscontri esterni. La previsione, correttamente, allinea la figura del testimone di giustizia a quella del testimone nel processo – le cui dichiarazioni fondano o contribuiscono a fondare il giudizio di responsabilità dell’imputato se dotate di attendibilità intrinseca – e la distingue da quella del collaboratore di giustizia, le cui rivelazioni, poiché provenienti da un criminale, vanno rigorosamente valutate con i criteri di cui all’articolo 192 del codice di procedura penale che impone la sussistenza di riscontri oggettivi. Ma, anche il ricorso a tale criterio qualitativo delle dichiarazioni dei testimoni, fa sì che il sistema di protezione si presti ad altre insidie. Già la stessa giurisprudenza della Corte di cassazione ha avvertito la necessità di distinguere tra le dichiarazioni del testimone-terzo e quelle del testimone-vittima, richiedendo in tale ultimo caso un vaglio più rigoroso dell’attendibilità. Si sostiene, infatti, che non può ignorarsi che la deposizione della parte offesa, a differenza di quella del teste, non è «a priori» immune da sospetto, in quanto ontologicamente portatrice di interessi antagonistici a quelli dell’imputato. Pertanto, il giudice va onerato di un maggiore scrupolo nel rigoroso apprezzamento delle dichiarazioni e, pur senza ricorrere ai rigidi criteri dell’articolo 192 citato, è tenuto ad utilizzare tutti gli elementi acquisiti nel processo, sia oggettivi che soggettivi, idonei ad avvalorare l’attendibilità del racconto. Se si considera, ora, che il testimone di giustizia-vittima non solo è portatore del medesimo interesse del testimone processuale-vittima, ma può anche perseguire come ulteriore o unico interesse quello dell’accesso alle misure assistenziali, si comprende come il paletto della generica attendibilità soggettiva è particolarmente labile e non fa da baluardo alle strumentalizzazioni (21). Non si vuole sostenere, né le risultanze acquisite nel corso dell’inchiesta lo consentirebbero, Pag. 33che tra gli attuali testimoni di giustizia si annidino impostori. Del resto, il contenuto numero dei soggetti che rivestono lo statusgià evidenzia che non si è verificata una sistematica utilizzazione strumentale della normativa. Nondimeno, il sistema di ammissione alle misure speciali deve essere costruito in maniera da evitare qualunque impiego improprio e da impedire che, anche una sola condanna, possa fondarsi sulle dichiarazioni, seppure intrinsecamente attendibili, di chi, per ragioni di profitto, si è costruito artatamente lo status di testimone di giustizia. Necessità questa che si rivela più pregnante in relazione ai crescenti «aiuti» riservati ai testimoni come, da ultimo, la possibilità di essere assunti, per chiamata diretta, presso la pubblica amministrazione.

  Occorre ripensare, pertanto, anche ai parametri oggettivi di accesso al sistema tutorio, collegando il pericolo anche alla portata della rivelazione che non può essere neutra, ma deve avere rilevanza investigativa o processuale, pur senza essere di «notevole importanza» e senza doversi tradurre in una sentenza di condanna. Deve inoltre prevedersi che le dichiarazioni – sebbene valutabili, simmetricamente al sistema processuale, in termini di intrinseca attendibilità – siano sottoposte al più rigoroso vaglio individuato dalla giurisprudenza della Corte di cassazione per quelle posizioni portatrici di un interesse proprio all’accertamento dei fatti di reato.

5. La scelta delle misure di protezione.

  Il decreto legge 15 gennaio 1991, n. 8, disciplina in maniera graduata l’accesso al sistema tutorio speciale al quale, innanzitutto, si ricorre solo se, secondo l’articolo 9, risulti «la inadeguatezza delle ordinarie misure di tutela adottabili direttamente dalle autorità di pubblica sicurezza» che, appunto, costituiscono il regolare strumento per la protezione dei cittadini che a vario titolo incorrono in rischi per la loro incolumità. Accertata tale inadeguatezza, il dettato normativo indica anche i criteri di scelta tra la più lieve forma delle «speciali misure di protezione in località di origine» e quella del più pregnante «programma speciale di protezione in località protetta», disponendo che a quest’ultima misura possa darsi luogo solo quando, a loro volta, anche «le speciali misure di protezione.. non risultano adeguate alla gravità e attualità del pericolo» (articolo 9, commi 2 e 4, decreto legge 15 gennaio 1991, n. 8).
Inoltre, l’articolo 12 del regolamento prevede, al comma 4, che il testimone di giustizia deve permanere nella località di origine «sempre che non sussistano esigenze di sicurezza che rendano necessario il trasferimento in un luogo protetto», così introducendo una sorta di presunzione di adeguatezza, salvo prova contraria, della protezione in loco per il dichiarante diverso dal collaboratore di giustizia.
La normativa sembra, almeno prima facie, correttamente impostata. Infatti, solitamente, eccetto casi eccezionali, il patrimonio di conoscenza del testimone dovrebbe essere di modesta entità e produrre, di conseguenza, una situazione di pericolo meno grave. D’altra parte, la protezione in località di origine è più adeguata al Pag. 34testimone anche sotto un altro aspetto. Si tratta, cioè, dell’unica misura capace, a differenza del gravoso programma speciale, di assicurare al protetto il previsto «tenore di vita personale e familiare non inferiore a quello esistente». Inoltre, sebbene le speciali misure richiedano allo Stato un maggiore impegno e ponderosi sistemi di tutela e vigilanza in loco, appaiono concretamente fattibili in considerazione del numero ridotto dei testimoni di giustizia rispetto a quello dei collaboratori 
(22).
Eppure, nonostante un quadro normativo lineare e chiaro nell’individuare le speciali misure di protezione come lo strumento appropriato per la protezione dei testimoni, si apprende 
(23), che tra gli attuali 80 testimoni di giustizia, soltanto 17 beneficiano delle speciali misure di protezione in località di origine. Al contempo si apprende che la Commissione centrale, cioè lo stesso organo al quale è rimessa la scelta delle misure, ha sempre insistito, costantemente negli anni, affinché si potesse giungere alla sistematica applicazione ai testimone di giustizia della protezione in loco, lasciando così emergere la sussistenza di ragioni esterne che, finora, hanno impedito di attuare il dettato legislativo. Ad esempio, nella citata «Relazione sui testimoni di giustizia» è riportato un passo dell’audizione, avvenuta il 27 giugno 2007, dell’allora presidente della Commissione centrale il quale aveva sottolineato che «il trasferimento nelle località protette debba essere considerato come un’eventualità a cui non ricorrere a cuor leggero. Per evitare quei pericoli di sradicamento è utile che si compia ogni sforzo perché attraverso la protezione in loco l’imprenditore possa continuare a fare l’imprenditore nel luogo dove ha sempre operato», ciò del resto sarebbe «suscettibile di favorire nuove denunce dimostrando che opporsi alla criminalità è possibile anche senza dover fuggire dalla propria terra».
A distanza di circa 7 anni, anche l’attuale presidente della Commissione centrale ha manifestato la medesima opinione: «È, in primo luogo, evidente l’elevato valore simbolico rappresentato dall’azione dello Stato che riesca a tutelare il testimone di giustizia proprio nel contesto criminale al quale egli ha inteso coraggiosamente ribellarsi. D’altro canto, tale forma di protezione consente la concreta possibilità per i testimoni di gestire personalmente le proprie attività, evitando i disagi connessi allo sradicamento dal territorio di origine durante la vigenza delle misure e non determina la necessità di un reinserimento socio-lavorativo alla cessazione della protezione» 
(24).
Occorre individuare, allora, quali siano le cause che, in concreto, hanno impedito e impediscono il ricorso alle speciali misure di protezione per i testimoni di giustizia, costretti invece a subire gli effetti negativi dello sradicamento dal loro territorio. Sicuramente, Pag. 35nella prassi applicativa, sono intervenuti diversi fattori. Ha influito, indubbiamente, la proliferazione dei cosiddetti testimoni border line che, quanto alla situazione di rischio, sono, a volte, più avvicinabili alla figura dei collaboratori che non a quella dei testimoni. Anche ragioni di «comodità» potrebbero avere inciso nell’arretramento dello Stato dai territori pervasi dalla mafia. Non si può escludere, infatti, che, nello sbilanciamento verso il programma speciale, avrà potuto avere rilievo la circostanza che le misure in località di origine sono, in realtà, più complicate e dispendiose, o talvolta concretamente impraticabili, perché impongono, e all’improvviso, alle forze di polizia territoriali, spesso numericamente e tecnicamente impreparate, forme di tutela e vigilanza ininterrotte sui testimoni, sui rispettivi familiari e sui loro beni. È molto più agevole, dunque, trasferire il testimone in luogo protetto dove, grazie alla mimetizzazione, non necessita di una massiccia e continuativa sorveglianza. Altra concausa della crisi delle speciali misure, va ravvisata nella modalità di misurazione del pericolo. La legislazione antimafia è nata in periodi emergenziali in cui il fenomeno mafioso, seppure conosciuto prima del terrorismo, si riproponeva con tutta la sua forza devastatrice e determinava l’emanazione, in via di urgenza, di provvedimenti normativi. Fa parte, dunque, del codice genetico della lotta alle mafie, la costante calibrazione del pericolo alle situazioni eccezionali dei periodi in cui i collaboratori di giustizia assistevano allo sterminio dei loro familiari, e gli imprenditori, come Libero Grassi, soli nella loro scelta di ribellione, venivano uccisi. Per esperienza e per cultura si è, dunque, propensi a immaginare scenari di rischio più gravi che, però, oggi si rivelano talvolta slegate dallo specifico contesto e ignorano i non pochi risultati ottenuti dall’impegno collettivo nella direzione della legalità. Il senso del cambiamento, ignorato nell’individuazione della misura adeguata, si coglie, per alcuni contesti territoriali, nell’audizione del presidente dell’associazione antiracket e antiusura «Addiopizzo» di Palermo, Daniele Marannano, che ha descritto un quadro ambientale in continua evoluzione: gli imprenditori che denunciavano l’associazione mafiosa – che cioè rappresentano la più ampia categoria dei testimoni di giustizia – prima venivano in larga misura sottoposti alle misure di tutela ordinarie; poi, anche grazie ai meccanismi di «difesa sociale», non hanno avuto bisogno di nessuna forma di protezione «militare». Nella pericolosa realtà palermitana, inoltre, secondo il racconto di Marannano, sono stati rarissimi i casi, per i quali si è dovuto ricorrere alle misure speciali. E ciò è avvenuto, non tanto per oggettive situazioni di pericolo palesatesi come più gravi, bensì «per la complessità del soggetto stesso che denuncia» o per le modalità di sviluppo delle indagini che «hanno determinato una sovraesposizione del commerciante» 
(25).
La ragione principale del fallimento delle speciali misure va, ancora una volta, individuata in quella stessa normativa che avrebbe voluto privilegiarle. Il contenuto delle due diverse misure di protezione, infatti, come meglio sarà evidenziato, è stato calibrato sulla Pag. 36figura dei collaboratori, e, pertanto, concretamente nessuna di esse può rispondere alle esigenze dei testimoni. In particolare, la mancata previsione di qualunque forma di assistenza economica per la protezione in loco, rende a volte particolarmente onerosa, per il testimone di giustizia, la permanenza nella località di origine ove, a causa della sua stessa testimonianza, rischia di assistere al deficit della sua impresa. Spesso, quindi, è lo stesso interessato che, prevedendo tale eventualità, preferisce il programma speciale e, all’uopo, può rappresentare un pericolo tale da fare apparire necessaria la più grave misura di protezione. Ma pure la strutturazione del procedimento di adozione delle misure risente del modellamento del decreto legge 15 gennaio 1991, n. 8, sulla figura del collaboratore di giustizia per il quale, senza giri di parole e arrovellamenti sui mezzi disponibili e sull’efficacia delle associazioni di volontariato, è quasi scontata la richiesta di applicazione del programma speciale di protezione ed è quasi scontata è la sua pedissequa adozione. La procedura, infatti, per come è impostata, affida la proposta di applicazione a un organo che, tecnicamente, non può misurare il pericolo complessivo né i mezzi necessari ed opportuni per arginarlo. Nel momento in cui la procura della Repubblica, percependo una situazione astrattamente pericolosa, propone alla Commissione centrale l’adozione del programma speciale per un testimone, non dispone né della competenza tecnica né delle necessarie informazioni – sulla concreta adeguatezza dei mezzi in quel momento disponibili per le misure ordinarie e per le misure speciali in loco, sull’operatività di eventuali associazioni di volontariato, sulle possibili soluzioni per la gestione dell’impresa in loco in assenza del titolare – per individuare la modalità di protezione adeguata. Del resto, la visione del fenomeno mafioso della singola procura, rispetto a quella della Direzione nazionale antimafia – il cui parere, peraltro, non è previsto come obbligatorio – è comunque parziale perché, specie al momento della proposta, non ha un panorama completo sull’apporto testimoniale e sulla sua rilevanza in procedimenti di altre procure, né sul contesto generale di risposta delle associazioni criminali a determinate «delazioni», né sui criteri adottati, a livello nazionale, per la trattazione uniforme di similari situazioni di rischio. Tuttavia, la proposta della procura della Repubblica, sebbene astrattamente non vincolante, determina però la «sovra-responsabilizzazione» della Commissione centrale che, quindi, tende ad accordare lo strumento massimo di tutela 
(26). Inoltre, in via più generale, deve rilevarsi che la normativa pensata per i collaboratori ha necessariamente condizionato le prassi applicative. Nella relazione redatta dalla segreteria della Commissione centrale e inerente alle modalità di applicazione del decreto legge 15 gennaio 1991, n. 8 emerge chiaramente che, nella pratica, le norme vengono interpretate nel senso tendente a prediligere il programma speciale di protezione. Ciò già partire dall’adozione del piano provvisorio, il cui contenuto, come si è anticipato, può consistere, a seconda della consistenza del pericolo, nell’anticipazione o delle speciali misure o Pag. 37del programma speciale di protezione. Nella relazione, invece, si legge il contrario e cioè che: «Tra gli obblighi stabiliti dal piano provvisorio (come pure dal programma speciale di protezione, v. oltre) vi è il trasferimento in una località diversa da quella di residenza (c.d. località protetta), misura necessaria per sottrarre la persona esposta a pericolo alle “ricerche” di coloro, che sono stati coinvolti dalle dichiarazioni accusatorie. Tale scelta si rende necessaria, in quanto il piano provvisorio di protezione e il programma speciale di protezione è ispirato a criteri di “mimetizzazione” dei soggetti interessati, realizzabile solo in un diverso contesto sociale, a differenza delle speciali misure di protezione che vengono disposte in località di origine» (27). Anche l’adozione delle speciali misure in località di origine, ha subito la stessa logica. Infatti, sempre nella relazione citata, il ricorso alla più blanda forma di protezione è percepito come l’alternativa, eventuale e forzata, al solo caso in cui il testimone rifiuti di trasferirsi nella località protetta: «La proposta investe di regola soltanto la figura del testimone, quando manifesta l’indisponibilità a trasferirsi in località protetta, volendo continuare ad attendere alla propria attività economica in località di origine..» (28).
In ultimo, per comprendere le ragioni per cui ben 63 testimoni, oltre ai relativi nuclei familiari, siano – ancora – sottoposti al programma speciale di protezione, va sottolineato che, sempre per l’inadeguata strutturazione della normativa di cui al decreto legge 15 gennaio 1991, n. 8, non solo i meccanismi di fuoriuscita sono farraginosi, ma il sistema di protezione, come si dirà, è concepito, per i testimoni di giustizia, come sine die.
Una riflessione finale va riservata alle perplessità avanzate sulla preferibilità delle misure in località di origine che, invece, secondo alcune posizioni, si rivelerebbero lo strumento meno adeguato per il testimone. Perplessità che sono state valorizzate e riassunte nella citata «Relazione sui testimoni di giustizia» approvata dalla Commissione nella XV Legislatura dove si evidenziava che: «(..) le misure tutorie nella località di origine si mostrano particolarmente complesse e raramente riescono ad assicurare la protezione dell’incolumità e la libertà dei movimenti personali del tutelato. Giova ricordare che occorre, in tali casi, provvedere a fornire sicurezza al testimone di giustizia e a ciascuno dei suoi familiari compreso nel programma, in via continuativa e durante tutto l’arco della giornata, sia nelle strutture logistiche da ognuno di questi occupate (vigilanza), sia nei loro movimenti giornalieri (scorte). (..) Analogamente, sotto il profilo dell’attività lavorativa, non sono mancati i casi nei quali l’imprenditore, divenuto testimone di giustizia, abbia visto svanire la propria potenzialità contrattuale, vedendosi rifiutare tutte le proposte e constatando l’allontanamento della clientela. In altri termini, volendo evitare al testimone di giustizia una nuova vita di isolamento in un Pag. 38contesto diverso da quello di origine, lo si consegna a un isolamento nella propria terra assai più rischioso e doloroso. Conseguentemente, sul piano simbolico, si finisce per ottenere proprio l’effetto opposto rispetto a quello sperato: la capacità intimidatoria e la forza dei sodalizi mafiosi ricevono consacrazione, il cittadino vessato si guarda bene dal seguire la strada della denuncia (..)» 
(29).
I condivisibili dubbi esposti, però, non possono, e non devono, costituire, nella prassi, elemento ostativo per precludere la soluzione della misura speciale in località di origine. Il legislatore è, stavolta, fin troppo chiaro nel prevedere che il programma speciale va adottato solo se le speciali misure «non risultano adeguate alla gravità ed attualità del pericolo». Ed è ovvio che il concetto di inadeguatezza non può rapportarsi alla carenza del mezzo, ma all’inidoneità del migliore mezzo possibile rispetto a una certa tipologia di pericolo. Ancora meno, secondo il dettato legislativo, possono incidere nella graduazione del pericolo e dunque delle misure tutorie, criteri diversi – quali il possibile isolamento sociale e lavorativo del testimone nella località di origine – che invece attengono, ad un altro aspetto della protezione, e cioè la qualità dell’assistenza che deve essere garantita. Sono numerosi, infatti, gli accorgimenti adottabili in tal senso e dei quali si tratterà più avanti, finalizzati a rafforzare «i sistemi di tutela personale e di sostegno aziendale attorno al testimone di giustizia nella sua terra di origine, tali da consentire il libero esercizio dei propri diritti a colui che ha svolto un ruolo determinante per l’affermazione della legalità» 
(30).
In altri termini, non è tollerabile, specie alla luce delle negative esperienze maturate dai testimoni nelle località protette, far gravare su di loro l’indisponibilità di mezzi di tutela in loco e l’incapacità di risolvere le risolvibili problematiche pratiche. Allo stesso modo, non è nemmeno tollerabile, che anche per lo Stato il programma speciale di protezione possa rappresentare un commodus discessus.

6. Le speciali misure di protezione (in località di origine).

  Le anomalie dell’impianto legislativo, tarato sulla figura dei collaboratori di giustizia, emergono soprattutto se si analizza il contenuto delle singole misure tutorie speciali, intrise di prescrizioni e modalità non confacenti a quella categoria di cittadini che il legislatore del 2001 si proponeva di tutelare. Con particolare riferimento alle speciali misure di protezione, va in primo luogo rilevato che l’articolo 16 bis del decreto legge 1991, n. 8, prevedendo ex novo la figura del testimone di giustizia, ha stabilito che a costui si applicano le medesime misure di protezione individuate per il collaboratore di giustizia e, a tal fine, ha espressamente rinviato Pag. 39all’articolo 9 – che contempla sia le speciali misure sia lo speciale programma – e all’articolo 13, comma 5 – che indica il contenuto dello speciale programma – del medesimo decreto legge. Non è stato, invece, richiamato il comma 4 dell’articolo 13 che statuisce sul contenuto delle speciali misure. Pertanto, non è dato sapere cosa il legislatore, seppure per grandi linee, avesse immaginato per i testimoni di giustizia sottoposti alla misura a loro congrua. La lacuna è stata poi parzialmente colmata regolamento ministeriale concernente le speciali misure di protezione (decreto del Ministro dell’interno 23 aprile 2004, n. 161), che all’articolo 7 (31)ha esteso ai testimoni il predetto comma 4 dell’articolo 13, anche se espressamente omesso dal legislatore e poco attinente ai testimoni. La misura in esame, infatti, poiché pensata come strumento residuale per i rari casi di collaboratori che decidono di rientrare nella località di provenienza dopo l’espiazione della pena e/o un lungo periodo di sottoposizione al programma speciale, si risolve, anzitutto, in una tutela a esclusivo contenuto «militare». Inoltre, e coerentemente con tale impostazione, non è stata prevista alcuna forma risarcitoria, essendosi ritenuto che il soggetto, collaboratore, nel luogo di origine può svolgere la pregressa attività e, soprattutto, vi rientra dopo avere percepito la cosiddetta «capitalizzazione» o dopo, comunque, avere goduto di benefici penitenziari ampiamente compensativi della collaborazione. La misura, quindi, pur dovendo rappresentare il principale strumento di tutela del testimone di giustizia, non considera nessuna delle sue peculiarità, sia dal punto di vista della protezione fisica che di quello dell’assistenza economica.

6.1 – La tutela e la vigilanza del testimone di giustizia in località di origine.

  Le speciali misure di protezione, consistenti sostanzialmente, nella vigilanza e nella tutela del testimone/collaboratore di giustizia e, se occorre, dei familiari, sono disposte dalla Commissione centrale, ma adottate dal prefetto del luogo di residenza – che determina il contenuto del dispositivo tutorio – ed eseguite dagli organi di polizia territoriali. Non è stata prevista, in tal caso, l’istituzione di nuclei specializzati, come i nuclei operativi di protezione (NOP), deputati ad attuare i programmi speciali di protezione, né è stata estesa la competenza della sezione del Servizio centrale di protezione dedicata ai testimoni di giustizia, anche come mera funzione di coordinamento, sulla realizzazione delle speciali misure in loco. Tale impostazione «militaresca», pensata evidentemente per i collaboratori di giustizia, ha dato origine a continue frizioni tra il protetto e le strutture che Pag. 40si occupano della sua protezione, non sempre adeguate all’assolvimento del compito. Il problema è, in parte, comune ai testimoni sottoposti al programma speciale per i quali, nonostante la prevista competenza dei NOP, egualmente intervengono le forze dell’ordine presenti sul territorio – dove spesso non vi è la sede dei «nuclei speciali» – per le singole incombenze da svolgere nella località protetta. La problematica, però, è più evidente nell’attuazione delle misure in loco ove, alla maggiore necessità di rendere la vigilanza e la tutela più energiche e più costanti, si contrappone l’assenza di qualunque corpo specializzato. Nella più volte citata «Relazione sui testimoni di giustizia» della XV legislatura a tal proposito si segnalava la «scarsa professionalità e sensibilità degli operatori di polizia», spiegando che le «forze di polizia territoriali (..) hanno palesato condotte molte volte ancorate al richiamo di regole formali (le stesse che si usano per gli inquisiti) (..) derivate da prassi operative (..) (che) si rivelano del tutto inadeguate ad affrontare le delicate problematiche in argomento, attinenti a tutt’altro tipo di soggetti e situazioni» (32).
Anche nel corso della presente inchiesta parlamentare, e quindi a distanza di anni, è emerso, dall’audizione dei testimoni di giustizia e di alcuni loro difensori, che alla crescita professionale dei NOP non si è sempre accompagnata quella delle forze di polizia territoriali. Certamente, rientra tra le cause di attrito, la scarsa informazione sul puntuale contenuto delle misure di tutela, sicché il testimone talvolta avanza pretese esorbitanti il cui mancato riconoscimento viene automaticamente addebitato a inesistenti inerzie dei soggetti incaricati della sua protezione. Ma il problema, peraltro cronico, ha un carattere più generale. Al riguardo, infatti, si è sottolineata la mancanza di specifica formazione delle forze di polizia territoriali e di appropriata sensibilizzazione delle prefetture. Ciò ha determinato, talora, l’incapacità di differenziare il testimone di giustizia, trattato come un delinquente, e a considerare la pesante gestione in loco come una «rogna» non ricompensata 
(33). È però difficile immaginare come in un Paese caratterizzato dall’elevatissima qualificazione delle forze dell’ordine e come proprio nelle occasioni di pericolo che richiedono addirittura l’adozione di misure speciali, non sia stato finora possibile ovviare alle, ormai radicate, criticità attraverso una maggiore specializzazione del personale di polizia del luogo, o semplicemente, con l’invio, all’occorrenza, di personale specializzato, e comunque ampliando le competenze del Servizio centrale di protezione per il coordinamento delle forze locali chiamate ad eseguire le speciali misure di protezione.

6.2 – L’assistenza economica del testimone di giustizia in località di origine.

  L’attuale impostazione del sistema non considera neanche che il testimone, rimanendo in loco, spesso subisce – a differenza del Pag. 41collaboratore, i cui proventi avevano spesso origine illecita – una notevole riduzione della capacità economica a causa della testimonianza. La particolare pervasività, in alcuni contesti, delle associazioni mafiose o la subcultura che caratterizza determinate realtà ambientali, fanno sì che la denuncia possa essere foriera della perdita di commesse, della riduzione della clientela, dell’interruzione di rapporti di fornitura. L’impresa di chi denuncia, che sempre più assottiglia le sue potenzialità, è destinata quindi al fallimento. Fallimento che, peraltro, sancisce la supremazia del consorzio mafioso o «mafiosizzato» e fa da monito deterrente per coloro che vorrebbero ribellarsi. Proprio per questo, come si è già evidenziato, in molti casi sono gli stessi testimoni a scegliere il programma di protezione in località protetta che, quantomeno, assicura il sostentamento e risparmia dalla gogna. E, proprio per questo, si è consolidata dalla parte delle stesse istituzioni la tendenza a tralasciare le speciali misure che, a priori, impediscono il risultato prestabilito dell’assenza di perdite per colui che adempie al dovere di testimoniare. Nel tentativo di assicurare al testimonein loco il sostegno patrimoniale non previsto dal legislatore del 2001, il regolamento ministeriale ha cercato di ovviare al problema attraverso accorgimenti che, ovviamente, non potendo disarcionare il dettato legislativo rimasto sordo, non possono essere risolutivi. Con l’articolo 7, infatti, sono stati estesi ai testimoni gli «interventi contingenti finalizzati ad agevolare il reinserimento sociale» contemplati per i soli collaboratori all’articolo 13, comma 4, del decreto legge n. 8 del 1991. Interventi, che però, per essere contingenti e solo eventualmente di carattere economico, mal si addicono al sostegno e alla graduale ripresa di un’attività imprenditoriale. Con l’articolo 12 dello stesso regolamento, è stato poi stabilito che la Commissione centrale deve curare, a mezzo del prefetto, che il testimone in loco prosegua o riprenda le attività ivi svolte. Ma la previsione è così generica da apparire un auspicio più che un dettato normativo e, pertanto, è rimasta priva di contenuti e di effetti.
Nonostante gli sforzi correttivi, l’assenza di adeguata considerazione per il testimone in località di origine, si è recentemente perpetuata con il decreto legge 31 agosto 2013, n. 101, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 ottobre 2013, n. 125, che, aggiungendo la lettera e bis) all’articolo 16 ter citato, ha introdotto la possibilità di assunzione in una pubblica amministrazione soltanto per i testimoni sottoposti al programma speciale o fuoriusciti dallo stesso, nulla prevedendo, neanche in via subordinata e residuale, per quelli in località di origine. Circostanza questa che, come rappresentato dal Viceministro dell’interno, Filippo Bubbico, nella sua audizione, ha già dato luogo, oltre che a proteste, anche all’avvio di studi per trovare pronti aggiustamenti che sanino la «dimenticanza». Alcune importanti soluzioni sono state, invece, individuate dalle associazioni di volontariato 
(34) che, fungendo da canale mediano tra il denunciante Pag. 42in loco, il contesto sociale e gli apparati statali, hanno arginato l’isolamento dell’imprenditore, hanno evitato il ricorso a misure di protezione, sia ordinarie che speciali, e hanno formato intorno all’impresa una sorta di catena di protezione che ne ostacola il declino. Si tratta di virtuosi circuiti che andrebbero incrementati e sperimentati in ogni realtà territoriale. Ma non sempre nelle località di residenza del testimone è possibile avvalersi di tali strutture associative, né sempre il testimone è disposto ad affidarvisi. In ogni caso, rimane il fatto che, anche in presenza di questi strumenti, lo Stato, in quanto obbligato principale, non è dispensato dal fardello della tenuta economica e del reinserimento sociale del testimone in loco. La risoluzione radicale della problematica necessita invece di un intervento legislativo, peraltro auspicato dalla stessa Commissione centrale, conscia della difficile attuabilità, in queste condizioni, delle speciali misure per i testimoni (35). Pur dovendosi mantenere le necessarie differenze di trattamento economico tra i testimoni in loco e quelli in località protetta, sarebbe necessario istituire forme di sostegno e di agevolazione per le imprese i cui sintomi di regresso siano in stretto rapporto di causalità con la testimonianza. Bisognerebbe cioè costruire un sistema che – attento a non creare zone di privilegio e corazzato rispetto a possibili speculazioni del denunciante o di terzi – possa impedire l’aggravarsi del declino dell’azienda e contribuire alla sua ripresa. È possibile, ad esempio, prevedere periodi di tassazione ridotta o sospesa, forme di convenzioni con enti pubblici e privati per forniture di beni e servizi, titoli preferenziali, a parità di condizione, per la partecipazione a gare pubbliche. È altresì possibile prevedere, ma se ne tratterà diffusamente più avanti, la creazione di un gruppo di tecnici che, da subito, dovrà accertare la composizione e la capacità produttiva dell’impresa, poi verificare l’eventuale sussistenza di nesso causale tra denuncia e perdite – evitando che incancrenite decozioni siano spacciate come improvvisi deficit – e, infine, se necessario e se il testimone ne fa richiesta, assistere quest’ultimo nella gestione dell’attività in potenziale decadenza. È possibile disporre, infine, per i casi in cui tali accorgimenti si siano rivelati infruttuosi, e dunque in estremo subordine, forme di sostentamento fino al riacquisto della capacità lavorativa o forme di aiuto al reperimento di un nuovo posto di lavoro. Va anche rilevato, al riguardo, che la Commissione parlamentare antimafia nella «Relazione sulle prospettive di riforma del sistema di gestione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata», approvata il 9 aprile 2014 (Doc. XXIII, n. 1), ha già espresso l’auspicio che l’Agenzia Pag. 43nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata si doti di strumenti di comunicazione informatica idonei a facilitare le collaborazioni fra amministratori giudiziari, a rendere possibile la creazione di una «rete» delle imprese sequestrate e confiscate e a sopperire in parte, per tale via, alle difficoltà operative che spesso rendono faticosa la prosecuzione dell’attività di impresa. Sarebbe opportuno inserire in questa rete anche le aziende dei testimoni di giustizia (anche di quelli in località protetta) che versino in difficoltà economica a causa della testimonianza o della sottoposizione al sistema di protezione.

7. Il programma speciale di protezione in località «protetta».

  Il programma speciale di protezione dei testimoni di giustizia, disposto dalla Commissione centrale e attuato dal Servizio centrale di protezione, si compone innanzitutto di misure di tutela uguali a quelle previste per i collaboratori che possono consistere, oltre che in quelle stabilite per le speciali misure, in una serie di altri accorgimenti molto più incisivi, come il trasferimento nella cosiddetta località «protetta» e la cosiddetta «mimetizzazione anagrafica», cioè il temporaneo rilascio di documenti identificativi di copertura e il definitivo cambiamento delle generalità. Poiché il testimone è costretto a spostarsi in un luogo diverso da quello di provenienza, l’articolo 16 ter del decreto legge 15 gennaio 1991, n. 8, gli assicura anche misure di assistenza economica che, a differenza di quanto disposto per i collaboratori, gli devono garantire «un tenore di vita personale e familiare non inferiore a quello esistente prima dell’avvio del programma» (36). Per completare la reintegrazione patrimoniale è stata contemplata la corresponsione di una somma, a titolo di mancato di guadagno, per l’eventuale cessazione dell’attività lavorativa, propria e dei familiari, nella località di provenienza – sempre che non abbiano ricevuto un risarcimento al medesimo titolo, ai sensi della legge 23 febbraio 1999, n. 44 («Disposizioni concernenti il Fondo di solidarietà per le vittime delle richieste estorsive e dell’usura») – nonché, se lo speciale programma include il definitivo trasferimento in altra località, l’acquisizione al patrimonio dello Stato dei beni immobili dei quali il testimone è proprietario, dietro corresponsione dell’equivalente in denaro a prezzo di mercato. Sempre in ragione dello spostamento in altra località che, di solito, comporta l’interruzione dell’attività lavorativa, sono state introdotte misure di reinserimento Pag. 44socio-lavorativo. In particolare, oltre alla cosiddetta «capitalizzazione» contemplata dall’articolo 16 ter del decreto legge 1991, n. 8, e della quale si tratterà più avanti, il decreto del Ministro dell’interno 13 maggio 2005, n. 138, è intervenuto per assicurare la conservazione del posto di lavoro ai testimoni in località protetta che, se dipendenti pubblici, sono collocati in aspettativa retribuita e, se dipendenti privati, hanno diritto al rimborso dei contributi volontari versati. Più di recente, con il decreto legge 31 agosto 2013, n. 101, convertito dalla legge 30 ottobre 2013, n. 125, è stata aggiunta la lettera e-bis) all’articolo 16 ter citato in cui si sancisce il diritto per il testimone di giustizia ad accedere, anche se non più sottoposto allo speciale programma di protezione, a un programma di assunzione in una pubblica amministrazione. Il variegato contenuto della più grave misura sembrerebbe risolversi in un imponente sistema, costruito in maniera specifica per i testimoni di giustizia e rivolto a offrire loro ogni forma di cura. Ma proprio la sua applicazione si è rivelata la principale causa della frattura, di difficile ricomposizione, tra testimoni protetti e Stato protettore. Se, infatti, se ne analizzano partitamente i singoli aspetti, si comprende che gli strumenti adottati fanno del fine perseguito un risultato utopico.

7.1 – Le questioni inerenti la sicurezza.

  Con riferimento alla salvaguardia della sicurezza, il gravoso programma speciale di protezione – peraltro non sempre adottato, come detto, in funzione della gravità del pericolo – si rivela «sovradosato» rispetto alla necessità, sì da non controbilanciare, nemmeno per tale aspetto, l’enorme sacrificio imposto ai suoi destinatari. Deve, invero, considerarsi che l’idea di inespugnabilità della località protetta perde terreno. Se si pensa che gli attuali mezzi di comunicazione, come i social network, consentono la localizzazione dell’individuo e l’ampia diffusione di frasi o di fotografie idonee a rivelare il luogo in cui una persona si trova; se si pensa che i testimoni e i loro familiari provengono da contesti di legalità, scevri al nascondimento e sfuggenti alle modalità criptate dei dialoghi; se si pensa che, nonostante i doveri di riservatezza gravanti sul protetto, il testimone e i suoi familiari sono liberi e, dunque, liberamente si muovono e liberamente mantengono i contatti con i terzi, specie con i familiari rimasti in località di origine; se si pensa che, in località protetta, il testimone e il suo nucleo non sono sottoposti a costante vigilanza da parte delle forze dell’ordine; se si pensa che, in ogni caso, le forze di polizia territoriali spesso non sono specializzate nel servizio di scorta né conoscono il contesto di provenienza e, indi, il grado di rischio del testimone di giustizia; se si pensa che, talvolta, gli immobili già utilizzati come alloggio per i collaboratori di giustizia sono poi assegnati ai testimoni; se si pensa, quindi, a queste e alle molte altre possibili variabili, appare evidente che la località protetta forse è meno protetta di quanto appaia.
Anche la mimetizzazione anagrafica, attuata attraverso i documenti di copertura e il definitivo cambio delle generalità, è spropositata rispetto ai suoi concreti effetti.Pag. 45
Va al riguardo premesso che:
il documento di copertura, che svolge una funzione di «schermatura» della reale identità ha carattere provvisorio – in quanto è destinato a decadere – e ha efficacia parziale in quanto, a tutela dei terzi, non consente di stipulare negozi giuridici, come l’apertura di un conto corrente bancario;
il documento di copertura non sempre viene rilasciato contemporaneamente a tutti i membri del nucleo familiare né, comunque, viene necessariamente rilasciato a tutti i membri del nucleo familiare;
il documento di copertura, che si forma senza l’interlocuzione dell’interessato, ha talvolta utilizzato nomi, dati anagrafici e località di origine, assolutamente incompatibili con il testimone che deve servirsene: sono stati segnalati casi di soggetti con marcato accento meridionale, indicati come originari di una cittadina del nord o come cittadini stranieri;
il cambio di generalità non è in rapporto di continuità con i documenti di copertura, nel senso che non sempre succede ai documenti provvisori e non prevede l’uso dei medesimi dati anagrafici usati per la temporanea copertura, salvo richiesta in tal senso dell’interessato, ai sensi dell’articolo 15 del regolamento citato;
il cambio di generalità abbisogna, risolvendosi nel delicatissimo azzeramento di una posizione individuale titolare di diritti e doveri, in una procedura comprensibilmente complessa e lunga;
tanto i documenti di copertura che il cambio delle generalità non potranno sostituire totalmente le reali generalità di un individuo. Lo stesso decreto legislativo 29 marzo 1993, n. 119, contempla casi in cui, a tutela della certezza del diritto e dei terzi di buona fede, deve svelarsi l’identità del testimone. Del resto basti pensare anche alla partecipazione al funerale di un parente o al convegno ove il testimone interviene per raccontare la propria esperienza di collaborazione, per comprendere come siano numerose le occasioni in cui il nome originario possa rivelarsi ancora.

  Diventa chiaro, da quanto premesso, che anche il farraginoso sistema della mimetizzazione anagrafica, è in realtà fallace. Il documento di copertura, poiché inidoneo all’assoluto occultamento dell’identità del soggetto – le cui reali generalità finiranno comunque per emergere, sia in occasione della stipula di ordinari negozi giuridici, sia perché i suo stessi familiari non sempre utilizzano quelle medesime nuove generalità, sia perché queste ultime, talvolta, rivelano esse stesse la loro origine fittizia – si trasforma in un’ulteriore e inutile limitazione della libertà del testimone di giustizia. Né il ricorso al documento di copertura è sempre commisurato alle – remote – probabilità che il soggetto sia riconosciuto e localizzato nel luogo protetto, mentre, di converso, il mancato automatismo col cambio di generalità di fatto rinvia tale – stavolta concreta – probabilità di riconoscimento ad un momento successivo. Vero è che il sistema ha funzionato nel senso che, come riferito in diverse audizioni, non si sono mai registrati casi di testimoni in località protetta vittime di Pag. 46rappresaglie. Ma ciò non basta per dimostrare la tenuta stagna dei programmi speciali, poiché l’assenza di ritorsioni può trovare tra le sue cause, o le sue concause, altri fattori, come la crescente perdita di interesse da parte delle associazioni criminali di porre in essere condotte eclatanti o la difficoltà nel trovare i necessari appoggi per compierle in diverso territorio o perché, più semplicemente, le dichiarazioni del denunciante, a differenza di quelle del collaboratore di giustizia, non hanno determinato una situazione di tanto grave pericolo. Sono ovviamente individuabili modalità per migliorare la sicurezza della località protetta o l’efficacia della mimetizzazione anagrafica, ma oltre che interrogarsi sul come tali strumenti possano essere rafforzati, è anche necessario chiedersi, di volta in volta, quanto sia opportuno e proficuo che siano utilizzati o che, addirittura, vengano utilizzati entrambi.

7.2 – Le questioni inerenti l’aspetto economico e il reinserimento socio-lavorativo.

  L’articolo 16 ter del decreto legge 15 gennaio 1991, n. 8 è l’unica norma con cui il legislatore del 2001 ha inteso disciplinare i diritti dei testimoni di giustizia che, stavolta sì, li differenziasse a chiare note dai collaboratori. Seppure sia una disposizione a corto respiro perché tutela soltanto i diritti patrimoniali e soltanto quelli dei testimoni sottoposti al programma speciale, è riuscita ad esprimere il corretto principio che deve guidare il trattamento economico di tale forma di collaborazione. L’ordinamento giuridico, invero, non potrebbe tollerare che l’adempimento di un dovere diventi fonte di corrispettivo o, addirittura, di arricchimento. Né, al contrario, potrebbe tollerare che l’adempimento di un dovere sia causa di una perdita. Coerentemente, l’articolo 16 ter citato, ha disposto, in favore dei testimoni di giustizia, emolumenti che assumono carattere compensativo e non premiale. Nondimeno, l’unica norma «dedicata», rappresenta il punto focale dell’attrito tra le istituzioni e i testimoni. Sarebbe già sufficiente rilevare, al riguardo, che molti di loro lamentano di essersi trovati in stato di indigenza sia durante la sottoposizione al programma, sia dopo la capitalizzazione; o denunciano il diverso trattamento economico riservato ad altri testimoni che, a parità di condizioni, hanno ottenuto somme più consistenti. Basterebbe pensare anche al crescente contenzioso amministrativo tra Commissione centrale e testimoni di giustizia, non solo per la risoluzione di questioni patrimoniali ma anche per il mutamento di status da collaboratore a testimone che fa da apripista per un trattamento economico più conveniente. Evidentemente qualcosa non ha funzionato e il sistema è entrato in fibrillazione. Per cercare di comprenderne le ragioni, deve iniziarsi proprio dalla formulazione dell’articolo 16 ter del decreto legge 15 gennaio 1991, n. 8, ove dispone che il testimone in località protetta ha diritto a «misure di assistenza, anche oltre la cessazione della protezione, volte a garantire un tenore di vita personale e familiare non inferiore a quello esistente prima dell’avvio del programma, fino a quando non riacquistano la possibilità di godere di un reddito proprio».Pag. 47
Il primo fondamentale interrogativo che la norma pone sin dalla sua entrata in vigore, riguarda la misurazione del «tenore di vita». La prassi, che fa riferimento ai redditi e ai patrimoni dichiarati ai fini fiscali, è stata profondamente criticata perché, come noto, non sempre le risultanze dell’Agenzia delle entrate coincidono con la reale capacità economica del contribuente. Pertanto ci si è profusi nella ricerca di canoni integrativi. Alcuni di essi sono stati elaborati nella citata «Relazione sui testimoni di giustizia» che, nel tentativo di dare alla nozione di «tenore di vita» un’ampia accezione, «riferita non solo al risparmio del reddito ma anche alla parte di esso investita o spesa in beni e servizi utilizzati», ha evidenziato l’opportunità di tenere conto anche di altri parametri, quali la «disponibilità di beni mobili registrati (imbarcazioni da diporto e autoveicoli), residenze secondarie, collaboratori familiari, attività extrascolastiche dei figli, frequenza di alberghi e ristoranti e viaggi all’estero». La Commissione centrale, invece, nonostante le pressioni di segno opposto, anche nella delibera del 30 luglio 2009, ha ritenuto di ribadire il precedente orientamento secondo cui il «tenore di vita» si misura tramite i dati reddituali e patrimoniali risultanti all’Agenzia delle entrate e riferiti all’ultimo triennio antecedente all’applicazione del programma di protezione. In effetti, deve convenirsi che, se è vero che i dati formali spesso non coincidono, in tema di redditi, con quelli sostanziali, è altrettanto vero che non può avallarsi un sistema che tenga conto dell’evasione fiscale e che valorizzi i patrimoni occulti. Se così non fosse, si dovrebbe anche assicurare al testimone di giustizia proveniente da un contesto familiare mafioso, il tenore di vita che prima gli veniva garantito dalla mafia e dalle sue entrate illecite, affatto corrispondente alla reale e legale capacità economica di quella famiglia. Del resto, gli ulteriori parametri prima indicati non attengono al guadagno ma alla spesa del guadagno che, spesso, tra l’altro, non sempre è proporzionata alle entrate. Una sorta di correttivo all’impostazione della Commissione centrale è stato elaborato dalla giurisprudenza del tribunale amministrativo secondo cui il medesimo tenore di vita in godimento prima della sottoposizione al programma di protezione, comporta, per un verso, che debba essere preso a riferimento il reddito percepito e, per un altro verso, che vanno separatamente corrisposte le spese che il protetto non avrebbe affrontato se non avesse assunto tale status 
(37). Di conseguenza, le spese relative alle voci elencate nell’articolo 8 del regolamento, vanno scomputate dall’assegno di mantenimento, ed esse non sono le sole delle quali l’amministrazione deve farsi carico, dovendo invece gravarsi anche di quelle che il testimone non avrebbe sostenuto senza il programma di protezione. L’interpretazione del TAR Lazio rappresenta un’evoluzione per la quantificazione del tenore di vita ma non è, ovviamente, destinata a soddisfare le posizioni tendenti a una ben più larga misura. La realtà è però un’altra. Il tenore di vita uguale a quello antecedente alla sottoposizione al programma di protezione è di per sé irrealizzabile. Il tenore di vita non coincide né con l’eguale quantità di denaro percepito né con la Pag. 48disponibilità di beni e servizi della stessa tipologia e dello stesso valore di quelli goduti in precedenza. Il tenore di vita è quello che l’individuo ha costruito nel tempo, secondo le proprie capacità economiche, le proprie aspirazioni e il contesto sociale e culturale in cui le ha estrinsecate, e che comporta la stratificazione di oggetti, di abitudini, di comodità, di relazioni, di inviti conviviali, di frequentazione di luoghi. Il tenore di vita uguale al precedente, dunque, può essere garantito solo nella località di origine ma è inattuabile nella località protetta ove, paradossalmente, sarebbe più facile assicurare un tenore di vita più elevato, ma, in questo caso si sfocerebbe nel sistema premiale. Pertanto, non sarà certo l’inserimento, nei parametri di valutazione, di una voce piuttosto che di un’altra che potrà mai essere risolutivo. Sicuramente l’auspicabile codificazione dei criteri di misurazione del tenore di vita contribuirebbe a realizzare la certezza dei diritti e, quantomeno, a non deludere altre aspettative. Così come sarebbe auspicabile che il parametro di riferimento per la determinazione del quantum sia commisurato a un concetto meno fluido e variabile del tenore di vita, in modo che, ab origine, lo Stato non prometta ciò che non è in grado di garantire. La soluzione del problema va, invece, trovata in un’altra direzione. Partendo dal dato oggettivo che l’eguale tenore di vita è incompatibile con la località protetta, qualunque essa sia, i rimedi immaginabili sono soltanto due: o privilegiare – anche per le altre ragioni esposte – la località di origine, ovvero garantire la breve durata del programma speciale in modo che il soggetto, rimesso nelle condizioni ex ante, sia che ritorni nei luoghi di provenienza o che si trasferisca definitivamente in altra località, possa presto riorganizzare l’autentico tenore della sua vita. Solo in questo modo è possibile contenere la perdita inesorabile imposta dal programma speciale di protezione.
A tale ultimo proposito, si pone un più ampio problema, riguardante la durata delle misure di assistenza economica. Il citato articolo 16 ter stabilisce che si protraggono, «anche oltre la cessazione della protezione» e fino a quando i testimoni non «riacquistano la possibilità di godere di un reddito proprio». In altri termini, le misure patrimoniali persistono indipendentemente dalla durata del programma, quindi del venire meno del pericolo, e cessano solo se il testimone abbia nelle more riconquistato la capacità reddituale. Ma quando il testimone di giustizia riacquista «la possibilità di godere di un reddito proprio» ? Nella realtà, mai o quasi mai. Si è appreso, nel corso dell’inchiesta, che numerosi elementi ostacolano la ricollocazione nel mondo del lavoro del protetto. A parte la diffusa crisi occupazionale, si è sottolineato che il testimone appartiene ad una fascia di età medio-alta rispetto alle offerte lavorative; che i testimoni di giustizia – come pure i collaboratori – vengono tutti collocati, per ragioni di sicurezza, solo in alcuni territori dove, man mano, diventa problematico trovare nuove occupazioni, tanto che si sta analizzando la possibilità, tramite convenzioni con altri Paesi, di trasferire i protetti anche in località estere. Tale ultima soluzione però, come è evidente, se può apparire ottimale per i collaboratori, anche per garantire loro una più efficace mimetizzazione, è assolutamente inconciliabile con i diritti dei testimoni per i quali, in tal modo, lo sradicamento sarebbe più gravoso. Né si comprende perché per iPag. 49testimoni – che, per definizione e di solito, incorrono in situazioni di pericolo meno eclatanti – non possano essere considerati territori regionali, di solito meridionali, preclusi per i collaboratori. Inoltre, si stenta a credere che, durante i lunghi e interminabili periodi di protrazione dello speciale programma – a volte decenni – non si sia stati capaci di trovare soluzioni lavorative. Ciò specie se si considera l’esiguo numero dei testimoni i cui nuclei familiari sono composti, in buona parte, da figli minori. Il vero problema si annida nella mancanza di una puntuale disposizione al riguardo dall’articolo 16 ter. Ancora una volta, è stato il regolamento, all’articolo 8, a chiarire che pure ai testimoni si applica la disposizione prevista dall’articolo 13 del decreto legge 1991, n. 8, secondo cui l’amministrazione deve adottare «misure atte a favorire il reinserimento sociale del testimone di giustizia e delle altre persone sottoposte a protezione». La norma, però, per la sua generica formulazione, lascia e ha lasciato spazio alla frapposizione di ostacoli anche pretestuosi. Diverso sarebbe stato se si fosse fermamente stabilito che va assicurato al testimone in località protetta il riavvio lavorativo, anche provvisorio, entro un (breve) tempo determinato per legge, salvo motivate e documentate situazioni di impossibilità. Inoltre, il legislatore del 2001, non solo non ha contemplato sistemi di immediato avviamento al lavoro del testimone, ma nulla ha disposto per assicurare che, quantomeno, l’impresa in loco del protetto potesse continuare ad essere produttiva anche in assenza del suo titolare. Dalle audizioni svolte, invece, si è appreso che in numerosi casi le aziende sono state costrette a chiudere nell’incuria generale e che, di conseguenza, sono state avviate procedure fallimentari raramente seguite dall’interessato o da un suo rappresentante, con le immaginabili conseguenze che una dichiarazione di fallimento comporta. Una legge, dunque, quella del 2001 che non ha saputo guardare né al futuro e nemmeno al passato. Anzi, alla lettera e)dell’articolo 16 ter del decreto legge 15 gennaio 1991, n. 8, dando quasi per scontato che il testimone di giustizia cessi l’attività lavorativa nella località di provenienza, ha semmai previsto la possibilità di corrispondere una somma a titolo di mancato guadagno 
(38). Lo stesso dicasi con riferimento all’acquisizione, da parte dello Stato, secondo il comma 3 dell’articolo 16 ter citato, degli immobili posseduti dal testimone nella località di provenienza, che avviene dietro corresponsione dell’equivalente in denaro a prezzo di mercato. La norma, però, non considera che tali beni, a causa del programma speciale, per anni sono lasciati in condizioni di abbandono, privi di manutenzione e che, al momento in cui rientrano nella disponibilità del testimone, sotto forma di denaro, sono deprezzati. Non coglie il problema, invece, quel rilievo secondo cui il prezzo di mercato, inoltre, non consente di «garantire al testimone una somma per l’acquisto di una nuova abitazione nella località protetta, generalmente situata nel centro-nord dell’Italia, caratterizzata da un maggiore costo della vita» (39). Una Pag. 50cosa è, infatti, la salvaguardia del patrimonio pregresso, il cui valore non può non essere quello di mercato, altra cosa è la salvaguardia del tenore di vita che, per tale altra via, dovrebbe imporre allo Stato di ripristinare, per quanto possibile, le situazioni ex ante.
Il legislatore del 2001 ha trovato un modo semplice, ma sbrigativo, per risolvere la questione della «possibilità di godere di un reddito proprio», così esonerando l’amministrazione dalla impegnativa ricerca di «misure atte a favorire il reinserimento sociale». Si tratta cioè della cosiddetta «capitalizzazione», contemplata nell’articolo 16 ter citato, consistente nella dazione di una più cospicua somma di denaro 
(40), prevista come alternativa al costo dell’assistenza, e anche come momento transattivo-conclusivo del programma speciale di protezione (41). La frettolosa equiparazione tra consegna di denaro e reinserimento sociale effettuata dal citato articolo 16 ter, è stata poi mitigata dall’articolo 10, comma 15, del regolamento citato, nel quale si specifica che la capitalizzazione può avvenire solo «in presenza di un concreto e documentato progetto di reinserimento socio-lavorativo». Il «rattoppamento», né poteva essere altrimenti, è rimasto tale, tanto che l’esperienza ha dimostrato che molte capitalizzazioni sono state sperperate o che, difficilmente, hanno raggiunto l’obiettivo. Il testimone in località protetta, infatti, proveniente da anni di estromissione dal mondo del lavoro o addirittura da un passato di costante ricorso a prestiti usurari, proiettato in un contesto sociale ed economico diverso da quello in cui aveva operato, non sempre è in grado di rendersi autore di un non velleitario ma «concreto progetto di reinserimento socio-lavorativo» e, in ogni caso, di realizzarlo. Parallelamente ai «concreti progetti», dovevano essere individuati meccanismi di valutazione della loro fattibilità, sia con riferimento al mercato che alle capacità del singolo, meccanismi di supporto che, pur senza trasformare il testimone di giustizia in un incapace o in un inabilitato, potessero aiutarlo nella redazione prima e nella realizzazione poi del progetto medesimo e, infine, meccanismi di vigilanza sull’effettiva destinazione della capitalizzazione allo scopo per cui era stata concessa. Deve, perciò, concordarsi, sul fatto che l’attuale modus operandi è «basato sulla convinzione che l’elargizione delle somme di denaro – talvolta rilevanti – possa risolvere qualsiasi tipo di problema dei testimoni, assumendo una sorta di significato liquidatorio rispetto ad ogni obbligo dello Stato» (42). Inoltre, la capitalizzazione, così come strutturata, non ha elementi di adattabilità alle singole esigenze. L’unico strumento di flessibilità è stato introdotto dal comma 15 dell’articolo 10 del regolamento dove si dispone che, accanto alla capitalizzazione, la «Commissione centrale può comunque deliberare misure straordinarie anche di carattere economico eventualmente necessarie per il reinserimento sociale». Ma, evidentemente si tratta di un’altra elargizione economica integrativa che, peraltro, fondandosi Pag. 51su scelte discrezionali, ha alimentato una «guerra tra i poveri». Non sono stati, invece, previsti semplici strumenti di personalizzazione della capitalizzazione che, pur non incidendo sul suo quantum, consentano di agire sul quomodo. I rappresentati della Commissione centrale e del Servizio centrale di protezione, ad esempio, nel corso delle loro audizioni, hanno auspicato la possibilità di considerare quelle situazioni in cui il destinatario della capitalizzazione, talora non sia in grado – anche solo per una questione anagrafica – di gestire quel valore economico destinato a perdersi e a fare del testimone di giustizia, fuoriuscito dal programma speciale, un indigente. In tali casi eccezionali dovrebbe potersi trovare una soluzione alternativa che possa comprendere, ad esempio, l’erogazione a rate della capitalizzazione, come una sorta di vitalizio, e/o l’acquisto di un’unità abitativa.
Solo di recente, nel 2013, si è cercato di codificare uno strumento che potesse effettivamente garantire il reinserimento sociale del testimone di giustizia. Come evidenziato, la nuova lettera e-bis) dell’articolo 16 tercitato – prevista dal decreto legge 31 agosto 2013, n. 101, convertito dalla legge 30 ottobre 2013, n. 125 – introduce il diritto «ad accedere (…) a un programma di assunzione in una pubblica amministrazione con qualifica e funzioni corrispondenti al titolo di studio e alle professionalità possedute, fatte salve quelle che richiedono il possesso di requisiti specifici». La previsione ancora non ha trovato attuazione ma, sin d’ora, anch’essa appare annunciatrice di nuove problematiche che ulteriormente appesantiranno l’incompleta e inadeguata disciplina dei testimoni di giustizia. Infatti, la novità, sollecitata per anni, ha creato molte aspettative che non sempre saranno soddisfatte. Sia per la stessa formulazione della norma – che usa la locuzione «accedere a un programma di assunzione» e non quella di «accedere a un’assunzione» – sia perché bisogna confrontarsi con la disponibilità di posti nel pubblico impiego, la disposizione non si tradurrà in una pronta e certa assunzione dei testimoni di giustizia 
(43).
In secondo luogo anche tale normativa aumenterà le lamentate differenze tra testimoni di giustizia. Già, infatti, bisogna risolvere la questione della sua estensibilità ai protetti in loco. Inoltre, anche tra i testimoni sottoposti al programma speciale bisognerà effettuare talune distinzioni in una sorta di graduatoria nel cui ambito la priorità è stabilita in modo inversamente proporzionale ai benefici ricevuti 
(44). Graduatoria destinata ad avviare l’ennesima stagione conflittuale perché, tra l’altro, quanto lo Stato ha già dato non sempre si è risolto in termini di ritrovata autonomia.
In terzo luogo, per quel cortocircuito di cui si è detto, il risultato dell’assunzione nella pubblica amministrazione, che di certo è apprezzabile, rischia di apparire l’ennesimo modo sbrigativo per risolvere Pag. 52le aspettative dei testimoni di giustizia. Il principale obiettivo da perseguire, rimane infatti, quello di porre il testimone nella condizione di svolgere il lavoro pregresso, secondo la sue capacità e professionalità, secondo la sua dignità e senza ricevere oboli. Il pubblico impiego, quindi, che è certo una soluzione, ma non la soluzione, dovrebbe rappresentare una extrema ratio, subordinata al fallimento delle alternative confacenti al singolo.

7.3 – Le questioni inerenti il disagio esistenziale.

  Nel corso delle audizioni, più voci – degli stessi interessati, degli avvocati, delle associazioni e anche dei rappresentanti delle istituzioni – hanno segnalato un diffuso stato di disagio e di insoddisfazione dei testimoni di giustizia connesso all’applicazione del programma speciale nel suo insieme considerato.
In termini generali, e in base a tali risultanze, può tracciarsi il profilo del testimone in località protetta come quello di colui che, insieme al suo nucleo familiare, oltre a subire le naturali conseguenze dello sradicamento dal territorio e della conseguente perdita del lavoro, degli affetti, degli interessi, delle relazioni, assiste ad una ulteriore, progressiva e inarrestabile, perdita di dignità. Il testimone di giustizia, per lungo tempo, vive senza svolgere nessuna attività e al di fuori di ogni contesto relazionale, al quale è destinato a non partecipare anche perché la «mimetizzazione», al contrario, lo svela come un personaggio sospetto. Molte sono le storie dei testimoni che hanno dovuto simulare uscite mattutine e rientri pomeridiani per dare l’idea al vicinato di svolgere un lavoro e di non trovarsi agli arresti domiciliari; che vivono il senso di solitudine e di inutilità e che sentono dipendere le sorti della propria vita da altri; per i quali il soddisfacimento dei bisogni essenziali, come una banale visita medica, diventa un problema insormontabile poiché rimesso ad un sistema burocratico e a una tempistica, incompatibili con il vivere quotidiano; che per moltissimi anni rimangono in attesa di cambiamenti – il riacquisto della capacità lavorativa o la cessazione del pericolo – che è difficile che si realizzino; che quando, dopo decenni, sono messi nella condizione di ricominciare non sono più capaci di farlo. È quindi facile, d’altra parte, entrare in un circolo vizioso di sfiducia, talora immotivata, verso le stesse istituzioni, così come efficacemente rappresentato nella citata «Relazione sui testimoni di giustizia»: «Si è preso atto che una parte consistente dei testimoni di giustizia rivela uno status di disagio che, se non controllato, rischia di sfociare in situazioni di vera e propria alienazione. (..) Il sentimento personale della giustizia e della legalità contrasta con la storia che egli vive e che vede scorrere dinanzi a sé. Anche la rappresentazione dello Stato, la sua natura etica ed il suo ruolo di tutela rischiano di essere inglobati in questa perdita, fino alla perdita della fiducia nello Stato e nelle sue forze. In questa dimensione tragica si può anche verificare che rappresentanti dello Stato o suoi funzionari, (..) vengano coinvolti in una rappresentazione e interpretazione della realtà fondamentalmente fantasiosa e squilibrata. (..) L’accrescersi di questa inquietudine e di tale perdita di percezione e controllo fa sorgere una ulteriore Pag. 53preoccupazione finalizzata ad una continua e sempre crescente rivendicazione di diritti che si presumono essere violati o disconosciuti».
A proposito di questo grave e diffuso disagio da più parti si è contestato che il Servizio centrale di protezione dispone di un ridotto numero di psicologi, tra l’altro collocati nella sede centrale, e il cui ruolo si limita a instradare il testimone presso psicologi del servizio sanitario nazionale. Ci si è anche lamentati che il sostegno psicologico non è automatico all’atto dell’ingresso nel programma speciale, ma è su richiesta dell’interessato 
(45) il quale, spesso, non sa di averne bisogno, né sa che fa parte dei suoi diritti di testimone, né sa comunque a chi rivolgersi. Si è quindi proposta l’istituzione di un sistema di sostegno psicologico da assicurare sin dall’inizio della collaborazione (46) o, secondo altri, l’istituzione di un tutor che, sin dall’ingresso nel programma di protezione, possa garantire «un sostegno psicologico e quindi intercettare/impedire/limitare l’insorgenza di problemi che possono condurre a malattie psichiatriche o a gesti eclatanti come il suicidio o il ritorno nella terra di origine» (47). Da parte sua, la Commissione centrale, per cercare di rispondere a tale esigenza sempre più avvertita e segnalata, ha introdotto, in via di prassi, al momento della sottoposizione al programma, la somministrazione di un test informativo al protetto, in modo da comprendere da subito le situazioni più a rischio e da tenerle sotto controllo.
Pur convenendosi, come si chiarirà, sulla maggiore attenzione da prestare al sostegno psicologico del testimone e del suo nucleo familiare, si corre il rischio, se non si analizza attentamente il problema, di trasformare una possibile previsione di una più pregnante assistenza psicologica, in uno specchietto per le allodole e, peggio, nella schermatura di una zona grigia. Infatti, lo stato del testimone che, all’improvviso, si trova nella località protetta, può essere paragonato per taluni aspetti a quelle altre situazioni necessitate in cui la persona è costretta a vivere in un’altra dimensione – si pensi ai ricoverati in ospedale o ai detenuti ristretti in carcere – e, del tutto naturalmente, matura un fisiologico malessere ambientale. Situazioni, ove il sostegno psicologico può essere utile ma non indispensabile. Diverso è il caso, che invece ci occupa, in cui il malessere riferito dagli auditi non dipende dalla modifica ambientale in sé considerata, peraltro accettata dal testimone al momento della libera sottoscrizione del programma, bensì dalle anomalie ulteriori e soverchie che il cambiamento ha generato e che il testimone mai si sarebbe volontariamente addossato. L’istituzione per legge di un sostegno psicologico erga omnes, per di più obbligatorio, avrebbe quindi l’effetto di legalizzare un malessere patologico conseguenza di condizioni di vita intollerabili; di fare accettare e piacere ciò che Pag. 54accettabile e piacevole non può essere; di equiparare il testimone di giustizia al malato mentale, destinatario di trattamenti sanitari obbligatori.
La soluzione allo «status di disagio che, se non controllato, rischia di sfociare in situazioni di vera e propria alienazione» non può, allora, che individuarsi nell’urgente costruzione e applicazione di un programma speciale adeguato ai basilari principi di vita di un cittadino in stato di libertà e improntato al criterio della rapidità, così, ad esempio, da permettere una sistemazione alloggiativa tendenzialmente stabile e consona al tenore di vita, un’occupazione lavorativa immediata, un inserimento sociale altrettanto rapido, anche attraverso la partecipazione ad associazioni di volontariato o a corsi di specializzazione o ad attività sportive. Del resto, il numero esiguo dei testimoni di giustizia rende ingiustificabili gli ostacoli e le lungaggini finora frapposti ad un trattamento di normalità. Altra cosa è, pertanto, il sostegno piscologico per il naturale malessere ambientale, che, riferendosi a uno stato fisiologico e non patologico, non abbisogna di essere generalizzato, né di essere reso obbligatorio né, tantomeno, di essere adattato a quelle forme di incapacità bisognose, per legge, di untutor. Semmai, come meglio si chiarirà avanti, è possibile rendere l’opportunità di tale forma di aiuto prontamente fruibile per chi decida di avvalersene, e prontamente proponibile per i casi di manifestazione evidente di disagio.
Sempre a proposito della difficoltà di adattamento per il testimone di giustizia estrapolato dal suo contesto di provenienza, va affrontata anche la questione relativa al connesso danno biologico. Il decreto legge 15 gennaio 1991, n. 8, non lo inserisce tra le voci automaticamente risarcibili al testimone il quale ultimo, se ritiene di averlo subito, può adire, trattandosi di diritti soggettivi, il giudice ordinario ex articolo 2043 del codice civile. La Commissione centrale, probabilmente per evitare sin dal nascere complesse e lunghe controversie civili e, probabilmente riconoscendo che il danno biologico per il testimone sottoposto al programma speciale è in re ipsa, nelle sue delibere di massima 
(48), ha previsto di farsi carico anche del suo ristoro, subordinandolo però all’osservanza di una procedura da svolgersi secondo precise modalità e tempi fissati dalla stessa amministrazione (49). Si è in presenza di un’altra buona prassi della Commissione centrale che mitiga le diverse esigenze: quelle del testimone a ottenere, senza ricorrere al giudice civile, il ristoro per il danno patito e quelle dell’amministrazione a non affrontare imprevedibili giudizi. Ma si tratta pur sempre di una concessione e per il cui perseguimento, peraltro, vanno rispettate le procedure stabilite unilateralmente dalla Commissione centrale (50), spesso non conosciute dall’interessato che, incolpevolmente, decade dal termine. Di certo non vanno in questa sede affrontate le questioni di ben altro Pag. 55profilo sollevate dai testimoni di giustizia sulla difficoltà a ottenere in tempi brevi la visita medica presso l’INPS e sulle difficoltà procedurali. Si ritiene, invece, che in un’ottica statale satisfattiva delle perdite del testimone a causa del suo status, dovrebbe essere stabilito a priori il riconoscimento del danno biologico da sradicamento e, al fine di evitare sfiancanti procedure o talora la simulazione di patologie amplificate, stabilire una somma forfettaria, uguale per tutti, da attribuire a ciascuno in forma transattiva, salvo che il testimone di giustizia non scelga la via del processo civile per una quantificazione più consona al danno maggiore patito.

8. Il piano provvisorio di protezione.

  Il piano provvisorio di protezione, previsto dall’articolo 13 del decreto legge 15 gennaio 1991, n. 8, è una misura che, in «situazioni di particolare gravità» – che non consentono di attendere i tempi necessari, per l’adozione delle speciali misure di protezione o del programma speciale – è adottata in via d’urgenza dalla Commissione centrale, «senza formalità e comunque entro la prima seduta successiva alla richiesta» e che, di conseguenza, ha carattere provvisorio essendo destinata a decadere se, decorsi 180 giorni, non si procede nelle forme ordinarie.
Il piano provvisorio in concreto si rivela, né potrebbe essere altrimenti, come la principale modalità d’ingresso nel sistema di protezione il cui contenuto, secondo il disposto dell’articolo 6 del regolamento può consistere, a seconda della gravità del pericolo, in quello delle speciali misure o in quello del programma speciale di protezione. Tuttavia, come già evidenziato, essendo basato anch’esso sul profilo dei collaboratori di giustizia, non è altro che l’anticipazione dello speciale programma e non anche delle speciali misure. Già solo per questo, anche tale misura urgente, ma destinata a diventare definitiva, rappresenta l’ennesimo momento vessatorio per i testimoni per i quali, appunto, dovrebbe privilegiarsi la permanenza in loco. A ciò va aggiunto che l’urgenza e la provvisorietà del piano danno luogo, così come appreso da diverse audizioni di testimoni di giustizia e come già stigmatizzato nella «Relazione sui testimoni di giustizia» della XV legislatura, a trasferimenti, sistemazioni e trattamenti poco o per niente accurati, all’insegna della trasandatezza. Diversi testimoni hanno riferito di essere rimasti per lungo tempo in alberghi o in caserme o in abitazioni fatiscenti, di avere trascorso periodi consistenti di solitudine, in una sorta di limbo caratterizzato anche dalla sospensione delle loro attività – taluni figli di testimoni di giustizia, per esempio, hanno perso l’anno scolastico – e maturando sin dall’inizio traumi psicologici che avrebbero poi segnato il seguente percorso collaborativo. È sicuramente comprensibile che quando un intero nucleo familiare va allontanato all’improvviso dalla località di origine, spesso nottetempo, non si ha la possibilità, nell’immediatezza, di rispondere adeguatamente a tutte le esigenze dei neo-protetti. Uno Stato che si è dotato di una legislazione per la tutela dei testimoni di giustizia, però, non ha alibi per rimettersi all’improvvisazione dell’urgenza, dovendo già disporre sin da subito di strutture, di mezzi Pag. 56e di modalità collaudate che, sebbene embrionali rispetto alla nozione di «eguale tenore di vita», siano tali da evitare le «deportazioni». Ciò a fortiori nei confronti dei testimoni di giustizia ai quali, estranei da un rapporto sinallagmatico, nessun adempimento e nessun sacrificio può essere imposto. In ragione del diverso impegno che lo Stato assume nei confronti dei testimoni, è inaccettabile, dunque, che la provvisorietà del programma diventi sinonimo di maltrattamento.

  Con riferimento ai testimoni di giustizia, poi, altro elemento spropositato è quello del termine di 180 giorni previsto per trasformare la provvisorietà in definitività. La previsione è evidentemente simmetrica a quella sul tempo entro cui deve essere redatto il cosiddetto «verbale illustrativo». In particolare, con le novità introdotte dalla legge n. 45 del 2001, è stato stabilito che l’intero patrimonio conoscitivo del dichiarante deve essere cristallizzato in un verbale entro un termine, appunto quello di 180 giorni, ritenuto a priori congruo per la complessiva raccolta delle dichiarazioni. Parallelamente, decorso tale tempo, il procuratore della Repubblica è anche nella condizione di valutare la pregnanza della collaborazione e, dunque, di esprimersi, entro quegli stessi 180 giorni, in merito alla metamorfosi del piano provvisorio in una misura di protezione. L’istituto del verbale illustrativo con il suo termine è stato concepito, evidentemente, per i collaboratori di giustizia, al fine di risolvere l’annosa questione delle cosiddette «dichiarazioni a rate». Tanto che, sin dalla prima fase di applicazione della legge, gli operatori del diritto, oltre a lamentarsi dell’insufficienza di 180 giorni per la rivelazione di tutto il sapere di un collaboratore, parallelamente si interrogavano sull’applicabilità del verbale illustrativo ai testimoni di giustizia, problema poi risolto in senso positivo.
Ora, a parte i casi eccezionali, è davvero improbabile che la redazione di un verbale illustrativo di un testimone di giustizia, dotato, in quanto tale, di conoscenze limitate rispetto a quelle del collaboratore di giustizia, possa richiedere concretamente il tempo di sei mesi. I 180 giorni, in questo caso, finiscono per essere dilatori rispetto al dovere degli inquirenti di attivare tempestivamente, laddove lo ritengano necessario, le procedure per la trasformazione del piano provvisorio in misura di protezione. E ciò a maggior ragione se si consideri che, per valutare la mera attendibilità intrinseca del dichiarante, non vi è necessità alcuna di svolgere approfondite indagini alla ricerca di riscontri esterni. Collegare la provvisorietà a un arco di tempo di ben sei mesi, senza prevedere un termine inferiore – pur facendo salva la possibilità di proroga sino a 180 giorni – appare un’immotivata sospensione dei diritti dei testimoni e per un periodo sovradimensionato rispetto alle esigenze del procedimento penale e di quello amministrativo.

9. La durata delle misure di protezione.

  Come emerso dall’inchiesta parlamentare, un’altra disfunzione del sistema di protezione è rappresentata dalla lunga durata della sua protrazione. L’estensione nel tempo delle misure si risolve, maggiormente Pag. 57in caso di applicazione del programma speciale, nella prosecuzione dello stato generale di sofferenza del testimone e nella graduale riduzione delle capacità lavorative e delle possibilità di reinserimento sociale. Tanto che, spesso, sono gli stessi testimoni di giustizia ad opporsi alla revoca del programma, non sentendosi in grado, dopo diversi anni di tutela, di ricominciare da capo.
Anche stavolta le cause vanno rinvenute nello scarso impegno della legislazione del 2001 a produrre un sistema confacente ai testimoni. Infatti, per i collaboratori di giustizia, l’articolo 13 quater del decreto legge n. 8 del 1991 intitolato «Revoca e modifica delle speciali misure di protezione» – anche se si riferisce anche al programma speciale di protezione – prevede: la temporaneità del sistema tutorio; l’indicazione di un termine, nel provvedimento di ammissione, entro cui procedere, periodicamente, alle verifiche ai fini della modifica, proroga e revoca delle misure; i casi di revoca «disciplinare», collegata alle condotte del protetto; i casi di revoca «funzionale» – attinente al venir meno della gravità, intensità ed effettività del pericolo – per la quale deve tenersi conto «del tempo trascorso dall’inizio della collaborazione oltre che della fase e del grado in cui si trovano i procedimenti penali nei quali le dichiarazioni sono state rese».
Nel comma 2 dell’articolo 16 ter del decreto legge, cioè nella norma dedicata ai testimoni di giustizia sottoposti al programma speciale, invece, è stabilito che «le misure previste (di tutela e di assistenza) sono mantenute fino alla effettiva cessazione del rischio, indipendentemente dallo stato e dal grado in cui si trova il procedimento penale in relazione al quale i soggetti destinatari delle misure hanno reso dichiarazioni». Sembrerebbe, dunque, trattarsi di un regime diverso, incompatibile con quello disciplinato dal predetto articolo 13 quater. E se a ciò si aggiunge che non vi è necessario nesso di causalità tra dichiarazione e pericolo, se ne ricava un meccanismo che consente di applicare, ai testimoni di giustizia, misure di protezione sine die. Nulla, invece, è dato sapere per le speciali misure che, quindi, anch’esse, possono protrarsi all’infinito.
Con una inspiegabile inversione di tendenza, il legislatore del 2001 – che ha esteso ai testimoni le energiche previsioni per i collaboratori – stavolta ha previsto l’esatto contrario: la protezione dei collaboratori è – tendenzialmente – a termine, quella dei testimoni è – tendenzialmente – destinata alla deriva degli anni.
È ancora una volta il regolamento ministeriale, all’articolo 10, a raddrizzare la schizofrenia legislativa e a escogitare la parificazione tra «penalizzati testimoni» e «favoriti collaboratori», prevedendo per tutti ed egualmente, la verifica periodica delle misure applicate, il termine di durata massimo di 5 anni (prorogabile), la revoca disciplinare e la revoca funzionale. Inoltre, l’articolo 11, comma 6, del medesimo regolamento, nell’ulteriore tentativo di porre un termine concreto, disgiunto dai vaghi pericoli che la legislazione ha considerato, ha, di fatto, introdotto una terza forma di revoca, cioè la «revoca di opportunità». Opportuna cioè «per avviare il reinserimento sociale e lavorativo, tenuto conto degli impegni processuali, della esposizione a pericolo, della compatibilità delle iniziative proposte con le esigenze di sicurezza, del tempo trascorso dall’adozione delle misure speciali Pag. 58di protezione». Con la machiavellica legittimazione del fine che giustifica i mezzi, si consente cioè di bilanciare entità che la stessa legislazione considera non paragonabili: un programma di reinserimento sociale – cioè, come detto, la pratica liquidatoria della capitalizzazione – non può essere coerentemente soppesato con quel pericolo tanto grave che sussiste, persino, a fronte di dichiarazioni prive di qualunque rilevanza investigativa o processuale.
Una legislazione che voglia tutelare i testimoni di giustizia non può prescindere dall’assoluta temporaneità dell’intervento statale e, soprattutto, del programma speciale di protezione che, in tempi brevissimi, deve essere trasformato o nella revoca della misura o nella sostituzione in speciale misura in loco, o nel definitivo trasferimento in altra località, con relativo reinserimento sociale. Ma non si può avere temporaneità in assenza di punti di riferimento che scandiscano il tempo che scorre. Il contenuto delle dichiarazioni e lo stato e il grado del procedimento, ad esempio, devono trovare formale dignità per contribuire al processo di «liberazione» del testimone di giustizia. In ogni caso, qualora vi siano elementi che fanno ritenere la sussistenza di un pericolo che va oltre il contenuto delle dichiarazioni e l’iter del procedimento penale, il sistema deve trovare egualmente un limite entro il quale il testimone vada definitivamente trasferito e cambi le generalità. Parallelamente alla valorizzazione di questi elementi – che, peraltro, sul piano pratico, già trovano considerazione, non essendo altrimenti possibile misurare la gravità e persistenza del pericolo – devono anche prevedersi strumenti che impediscano la ricaduta delle lungaggini di un processo sull’incolpevole testimone, come già avviene. Uno di questi è sicuramente l’istituto dell’incidente probatorio, previsto dall’articolo 392 del codice di procedura penale, già introdotto alla lettera d) per i collaboratori indipendentemente da situazioni di urgenza processuale e, ancora una volta, scordato per i testimoni. L’anticipazione della formazione dibattimentale della prova che tale norma consente permetterebbe di raccogliere definitivamente le dichiarazioni nella fase delle indagini preliminari ed eviterebbe – salvo eccezioni – che il testimone sia ripetutamente sentito nel processo e che ne aspetti i tempi di celebrazione.
Tempi rapidi, dunque, per evitare che essere testimoni di giustizia diventi un mestiere e la capitalizzazione una buonuscita.

10. Dalla parte del testimone di giustizia.

  Un sistema di protezione che si propone di riconoscere e assicurare il godimento immutato dei propri diritti, può definirsi compiuto quando, oltre ad avere contenuti idonei allo scopo, si conformi in modo tale da considerare il tutelato nella sua individualità e da renderlo un soggetto consapevole e partecipe della gestione della sua vita. A fronte di previsioni generali e oggettive che disciplinano un trattamento, solo la previsione di spazi di elasticità che consentano di considerare la particolarità di ciascuno, consentirebbe che quello stesso trattamento non si trasformi, al contrario, in una fonte di denegati diritti.Pag. 59
Il regolamento ministeriale (decreto del Ministro dell’interno 23 aprile 2004, n. 161), anche per tale aspetto, ha cercato di supplire alla superficialità del decreto legge 15 gennaio 1991, n. 8, e ha previsto, all’articolo 12, comma 1, che nella predisposizione delle misure tutorie, deve tenersi conto «della particolare condizione dei testimoni e delle loro esigenze specifiche».
Nella prassi, però, anche questa pallida indicazione non ha trovato sostanziale compimento. La «Relazione sui testimoni di giustizia» della XV legislatura, sul punto, evidenziava che l’amministrazione dei testimoni è attuata «a sportello» e non in modo«relazionale», ossia «non si è compiuto il passaggio da una gestione puramente burocratica della figura del testimone ad un modello che dovrebbe veder costituito un rapporto fra due parti dove non figura l’intervento dominante dell’apparato istituzionale ma il riconoscimento di due soggettività chiamate ad offrire il reciproco contributo. I protocolli e i comportamenti standardizzati mal si prestano a soddisfare adeguatamente le esigenze dei singoli, non solo diversificate, ma di diversa intensità: ecco, quindi, la necessità di adottare un modello relazionale» 
(51). D’altra parte i pochi tentativi di personalizzazione, probabilmente per l’assenza di sistemi di misurazione oggettiva «della particolare condizione dei testimoni e delle loro esigenze specifiche», sono stati talvolta percepiti dagli stessi testimoni di giustizia come l’espressione di favoritismi (52). Inoltre, l’iter «protezionale» non prevede la partecipazione, diretta o indiretta, dell’interessato che, invece, deve limitarsi ad un’attività di mera documentazione dello stato familiare e patrimoniale. Né prevede, soprattutto, la consapevolizzazione del protetto sui propri diritti, sia quelli originari lasciati in sospeso a causa dell’avvio della procedura, sia quelli successivi derivanti dal nuovo status.Diritti che i testimoni di giustizia, nella migliore delle ipotesi, riescono a fare valere successivamente in sede di contenzioso e, nella peggiore delle ipotesi, rinunciano ad esercitare.
A partire dall’avvio della procedura di applicazione delle misure tutorie, il testimone si trova in una situazione di svantaggio che si ripercuoterà nelle successive fasi. La più ricorrente lamentela riguarda, infatti, la carenza di adeguate informazioni già a partire dalla sottoscrizione dell’impegno che, tra l’altro, è spesso un momento improvviso e traumatico. Carenza che fa sì che il testimone si ritrovi catapultato in una vita diversa senza avere previsto e accettato tutte le conseguenze e le sfaccettature del cambiamento. Sono stati, pertanto, suggeriti alcuni rimedi. Ad esempio, nella «Relazione sui testimoni di giustizia» della XV legislatura si proponeva «un percorso Pag. 60di progressiva realizzazione dell’accordo documentale, redigendo, in una prima fase (prossima all’ammissione al programma), una sorta di “preliminare”, per poi stilare (con l’assistenza di personale – dotato di analoga specializzazione e competenza professionale – delle strutture periferiche competenti in relazione alla località protetta di destinazione) un programma definitivo che stabilisca condotte consapevoli e certe, a cui entrambi i contraenti, in assenza di novità, si debbano attenere» 
(53). Altre proposte pressano, invece, per l’introduzione della figura di un tutor, come punto di riferimento, principalmente psicologico, per il soggetto che inizia il percorso di collaborazione (54). A sua volta, la Commissione centrale, ben consapevole dell’annoso problema, ha cercato di smussare la criticità disponendo che «venga consegnato al testimone di giustizia un apposito vademecum, nel quale viene fornita – sin dal momento dell’ammissione al piano provvisorio – una informazione dettagliata sui diritti e doveri connessi allo status di beneficiario di speciali misure di tutela» (55).
Nessuna di queste utilissime soluzioni, però, risolve il problema dalla radice. L’iter per l’acquisizione dellostatus di testimone comincia, ancora prima della stessa proposta della procura della Repubblica, quando cioè il soggetto rende le sue prime dichiarazioni. Al collaboratore di giustizia, al quale è connessa la qualifica processuale di indagato/imputato, il codice di rito riconosce una posizione di garanzia che gli assicura, in ogni momento, l’assistenza di un difensore e soprattutto la facoltà di non rispondere o ritrattare qualora lo ritenga conveniente. Il testimone, invece, talvolta diventa tale per caso. Eccetto che per la denuncia volontaria della quale assume l’iniziativa, egli si ritrova obbligato a rendere le sommarie informazioni o l’esame testimoniale con contenuti e tempi per lui non preventivabili. L’iter tutorio, dunque, spesso viene accettato – essendo rifiutabile – come via improvvisa e obbligata per la salvaguardia della incolumità propria e di quella della sua famiglia. Inoltre, trattandosi di terzo o vittima non è prevista l’assistenza di alcun difensore – salvo nella successiva fase processuale, qualora intenda costituirsi parte civile – e, tanto meno, di tutor di sorta. Poi, una volta informato delle conseguenze della collaborazione, non potrà, se le ritiene svantaggiose, ritrattare o rifiutarsi di rispondere nel futuro perché tali condotte integrerebbero fattispecie di reato. Non sembra fattibile intervenire in questo Pag. 61delicatissimo segmento temporale ove il dovere di dichiarare prevale, secondo i principi, sulla convenienza a dichiarare: il sistema tutorio non è la conditio sine qua non per assolvere al dovere testimoniale, ma un eventuale strumento che, ex post, garantisce colui che quelle dichiarazioni avrebbe dovuto rendere comunque.
Un’adeguata campagna di informazione preventiva e generale potrebbe accorciare il divario tra testimone di giustizia e collaboratori. Si pensi, ad esempio, a un sito web istituzionale che illustri i diritti e i doveri connessi allo status di testimone, in termini chiari e semplificati rispetto alla farraginosità della legge e che fornisca i recapiti delle associazioni dislocate nel Paese, in grado di fornire, da vicino, informazioni più dettagliate e sostegno. Un tale accorgimento consentirebbe al soggetto la preventiva ponderazione dei suoi interessi per i casi di denuncia facoltativa, l’acquisizione graduale di consapevolezza per i casi doverosi di denuncia obbligatoria e di sommarie informazioni/testimonianza, e, comunque, permetterebbe l’assistenza tempestiva dell’associazionismo locale. Si contribuirebbe anche a ricomporre la diffusa sfiducia verso i sistemi di protezione, rappresentati nei media dagli stessi testimoni di giustizia in termini di negatività. Sfiducia che, verosimilmente, ha alimentato molte reticenze.
Il problema del deficit informativo emerge anche nei momenti successivi, a partire dalla cosiddetta «assunzione degli impegni», nella quale, ai fini della predisposizione di un piano tutorio adeguato, il testimone deve portare a conoscenza dell’autorità proponente, ogni notizia personale e patrimoniale che lo riguardi 
(56).
In questa delicata fase, il testimone – che tende ad affidarsi alle istituzioni, che è privo delle necessarie cognizioni tecniche, che si trova nel momento traumatico iniziale della scelta e che potrebbe già essere stato trasferito in via d’urgenza in altra località – non sempre è in grado di valutare e di documentare quale sia il suo stato patrimoniale e quali siano le sue pendenze. Si determina, quindi, sin dall’inizio, un’insufficiente trasmissione di dati all’amministrazione pubblica che costituirà la base di partenza per i successivi contenziosi tra le parti.
Il deficit informativo si manifesta, inoltre, nel momento della sottoscrizione dell’atto di impegno 
(57); sottoscrizione che, peraltro, non può essere parziale e comporta l’integrale adesione a tutte le clausole contenute nel documento. Di particolare utilità appare, in tali momenti, il vademecum introdotto dalla buona prassi della Commissione centrale, che però non può tradursi in reale conoscenza. La distinzione tra le diverse forme di protezione è persino confusa dallo Pag. 62stesso legislatore che, talvolta, usa la locuzione «speciali misure di protezione» per comprendere anche il «programma speciale». Né sempre è chiara per i protetti la differenza di contenuti, specie quelli di natura patrimoniale, tra le due forme di tutela. Ad esempio, si è potuto constatare che taluni testimoni di giustizia, solo dopo la fuoriuscita dal programma e vedendosi respingere le richieste avanzate, hanno appreso quale fosse il trattamento di pertinenza. Né è chiaro al neo testimone come poi i contenuti delle misure si traducano nella realtà (58).
Anche durante il periodo di applicazione della misura tutoria, il testimone di giustizia non sa quali siano i suoi diritti, né come esercitarli. Intanto, non è nemmeno in condizione, spesso, di soddisfare le quotidiane esigenze, essendo compresso tra il dovere di riservatezza, l’assenza di punti di riferimento prontamente disponibili e la carenza di strumenti economici. A maggior ragione, non è in grado di affrontare problematiche complesse, essendo sprovvisto delle cognizioni tecniche e dei mezzi economici straordinari che gli consentano di acquisire, per interposta persona, siffatte conoscenze. Il regolamento ministeriale, infatti, all’articolo 8, limita l’assistenza legale a carico dell’amministrazione ai procedimenti penali nei quali il testimone ha reso le dichiarazioni e ai procedimenti «per la tutela di posizioni soggettive lese a motivo della collaborazione resa» e non prevede altre forme di consulenza. Ne deriva che il testimone non sa né può esercitare sia i diritti e le difese con riguardo alle situazioni lasciate in sospeso nella località di origine e destinate, in assenza di qualunque forma di intervento e di controllo, a precipitare 
(59), sia quelli che il nuovo status di dichiarante gli conferisce. (60) Si pensi, Pag. 63tra l’altro, alla complessa determinazione delle misure di assistenza secondo il discusso parametro del tenore di vita, alla successiva capitalizzazione (e non tanto con riguardo alla determinazione dell’ammontare, ma alla redazione di un progetto di reinserimento sociale), alle altre prestazioni a carattere economico previste dal decreto-legge 15 gennaio 1991, n. 8, al cd danno biologico la cui rifusione, non prevista dalla normativa, ma inserita da una delibera della stessa Commissione centrale, prevede termini e modalità ancora più oscuri per l’interessato.
Esistono diverse soluzioni per rendere i diritti, non soltanto proclamati, ma effettivi e per riportare la personalizzazione tra gli strumenti di attuazione della parità e non del suo contrario. Tra le proposte avanzate nella «Relazione sui testimoni di giustizia» che, come si è detto, aveva rilevato diverse disfunzioni nella prassi della procedura tutoria, vi era quella dell’istituzione di un «comitato di garanzia» e di un tutor: il primo, composto da diverse professionalità, avrebbe dovuto vigilare «sul corretto ed efficace espletamento del programma di protezione del testimone di giustizia», il secondo avrebbe dovuto assicurare «un affiancamento personalizzato e continuo» del testimone e «porsi come interlocutore, per conto del testimone di giustizia, degli organi amministrativi e, più in generale, della pubblica amministrazione». Si è già accennato al fatto che, negli ultimi tempi, le prassi sono migliorate e, pertanto, non occorre più la vigilanza sull’operato degli apparati amministrativi, necessitando, invece, di rendere effettivi i diritti pregressi e quelli connessi allo status che il sistema attuale, nonostante i suoi limiti, rispettivamente riconosce e concede. Più adeguata sembra la costituzione, non di un comitato di garanzia, ma di un «comitato di assistenza»: comitato, cioè, formato da esperti nelle materie che possano riguardare la posizione patrimoniale e personale del testimone di giustizia, che si facciano carico, chiaramente con l’adesione e la partecipazione dell’interessato, di tutte le problematiche connesse alla testimonianza e che, a tal fine, interloquiscano con gli apparati amministrativi deputati alla protezione; comitato di assistenza che si rapporti con l’amministrazione non in veste ispettiva, o come controparte, ma come organo di collaborazione, come longa manus, per il perseguimento dell’obiettivo comune; comitato, costituito sì da soggetti esterni agli apparati amministrativi di protezione e iscritti in appositi albi, ma formato, di volta in volta, dalla stessa Commissione centrale, per evitare nomine di esperti che, per varie ragioni, possano compromettere la sicurezza del testimone; comitato che deve intervenire sin dall’avvio della proposta di sottoposizione a misure tutorie, qualunque esse siano, e la cui opera deve protrarsi, se il testimone di giustizia ne faccia richiesta, anche dopo la revoca delle misure e finché il soggetto riacquisti l’autonomia; comitato nel cui interno va individuato un referente al quale il testimone di giustizia potrà prontamente rivolgersi, se lo ritiene, per ogni necessità; comitato che, inoltre, vaglierà l’opportunità, in relazione alle peculiarità del singolo testimone, di far nominare ulteriori esperti in eventuali altre discipline che potrebbero rilevare, come ad esempio, all’occorrenza e sempre su istanza dell’interessato, lo psicologo, evitando dunque le ingombranti ed etichettanti figure di tutor; comitato che, dunque, assumerà nei Pag. 64confronti del testimone di giustizia, non il ruolo di stampella, ma di «poliambulatorio», cioè uno studio professionale multidisciplinare a sua disposizione.

  Un comitato con tale profilo potrà porre fine alle annose problematiche rilevate, influendo, ad esempio:
sull’adeguata informazione, in ogni momento, del testimone di giustizia;
sulla scelta della misura rispetto alle complessive esigenze, ad esclusione di quelle di sicurezza, che competono ad altri organi in grado di valutarle;
nella pronta e puntuale individuazione e quantificazione del patrimonio, attivo e passivo, e delle obbligazioni al momento della collaborazione;
sulla equa e oggettiva personalizzazione della misura;
sull’idonea gestione del patrimonio e dei beni aziendali del testimone che si trovi in località protetta;
sul riavvio dell’impresa del testimone rimasto in località di origine;
sulle altre situazioni creditorie/debitorie connesse alla collaborazione;
sull’esercizio di diritti patrimoniali conseguiti in ragione della collaborazione;
sulla risoluzione dei vari e possibili problemi inerenti all’esercizio di diritti e libertà;
sui rapporti con l’amministrazione che perderebbero natura conflittuale;
sulla predisposizione di un consono progetto di risocializzazione e sulla sua realizzazione.

11. Verso una nuova protezione per i testimoni di giustizia.

  L’accostamento nel medesimo testo di legge finalizzato alla differenziazione tra collaboratori e testimoni, è il peccato originale della legge n. 45 del 2001, che ha novellato il decreto legge n. 8 del 1991 sui «pentiti». L’avvicinamento delle due diverse figure nel medesimo substrato normativo ha causato una paradossale contaminazione che ha consentito di estendere tout court ai testimoni le procedure e le misure costruite per i collaboratori. L’obiettivo, perseguito dal legislatore del 2001, di dare finalmente dignità legislativa alla figura del testimone di giustizia è stato conseguito con l’inserimento di due sole disposizioni di legge nel testo dedicato ai collaboratori di giustizia, confidando in tal modo nella creazione di un sistema autonomo di tutela. Tuttavia, tale modalità di normazione si è rivelata nei fatti insufficiente a creare effettivamente un binario Pag. 65separato tra i modelli di «gestione» dei collaboratori e quelli dei testimoni di giustizia. Peraltro, l’esperienza di questi anni ha dimostrato che nella realtà la consistenza numerica dei soggetti cosiddetti border line – che, nel silenzio delle norme, attendono di sapere se appartengono all’«area della collaborazione» o all’«area della testimonianza» – prevale su quelle dei testimoni-terzi e dei testimoni-vittime. La legge n. 45 del 2001, per quanto abbia rappresentato un notevole passo in avanti per i testimoni, non ha la struttura di una normativa organica sulla materia e presenta oggettivamente una serie di carenze.
Ci si è dimenticati, nel disciplinare il trattamento dei testimoni di giustizia, di chiarire in cosa mai potesse consistere la forma di tutela, cioè le speciali misure di protezione, destinata in via preferenziale alla protezione dei non pentiti. Ci si è dimenticati di prevedere concrete forme di reinserimento lavorativo e il problema è stato liquidato con la capitalizzazione, cioè con lo stesso strumento previsto per i collaboratori già ampiamente beneficiati sul versante penitenziario e con l’unica differenza riguardante il coefficiente di moltiplicazione. Ci si è dimenticati di inserire termini e scansioni temporali che potessero consentire al testimone di giustizia, che non ha pene detentive da scontare, di tornare ad essere un uomo libero. Ci si è dimenticati, in ultima analisi, di consegnare una legge ai testimoni di giustizia. Gli aggiustamenti per mezzo dei decreti ministeriali non potevano produrre norme che non fossero saggi consigli rimessi alla buona volontà di questo o quel funzionario. A sua volta, l’intervento legislativo del 2013 che cerca finalmente di risolvere la problematica del lavoro, forse non raggiungerà l’effetto sperato. Pensare, dunque, ad altre interpolazioni del decreto legge n. 8 del 1991, segnato anche da un naturale invecchiamento, sarebbe indiscutibilmente inadeguato. Se nel 2001, spronati e motivati dalla possibilità di introdurre quella differenziazione, non si capì che i terzi, le vittime e iborder line necessitavano di un’altra legge, oggi, alla luce delle criticità raccontate nelle pagine che precedono e della frattura insanabile tra protetti e protettori, non residuano alibi per non dotare il Paese di una normativa che sappia individuare prima, accogliere poi, e rimettere in libertà infine, i suoi testimoni. Non è quindi possibile intervenire se non con una legge ex novo, dedicata ai soli testimoni di giustizia, che riscriva i principi ispiratori e li trasponga, passo per passo, in ogni singola norma. A tal proposito, un ulteriore merito della legge n. 45 del 2001, è proprio quello di avere avviato una sperimentazione pionieristica che ha consentito di maturare i tempi per riscrivere un testo di legge che non riproponga gli errori del passato.

  Di seguito i criteri che si ritiene di indicare all’esito dell’inchiesta parlamentare che non possono prescindere da un qualificato, duraturo, capillare lavoro educativo che promuova in ogni ambito sociale la cultura della denuncia e che stigmatizzi la cultura dell’omertà che fa sì che la scelta di chi fa nomi e cognomi, costa per lo più il prezzo dell’isolamento:
1) La nuova legge sulla protezione dei testimoni di giustizia dovrà prevedere un sistema nell’ambito del quale il ricorso alla Pag. 66protezione del testimone si configuri come una extrema ratio. Allo stesso tempo occorre che le misure scelte per la protezione non siano sovrabbondanti rispetto a quanto effettivamente necessario, privilegiando l’utilizzo delle misure tutorie in loco rispetto al programma speciale di protezione, come già ampiamente spiegato, eccessivamente invasivo dal punto di vista personale e familiare. Ciò comporta anche il mutamento di radicate mentalità e prassi, perché tali misure richiedono uno sforzo maggiore da parte del sistema di protezione nel suo complesso. Tuttavia, nelle pagine precedenti, si è evidenziata più volte, l’esiguità numerica dei testimoni di giustizia rispetto ai collaboratori. Il sistema di protezione statale, dunque, non può non garantire un maggiore sforzo per far sì che 80 persone sull’intero territorio nazionale possano essere protette in loco e non con l’automatismo di fatto, previsto per i collaboratori di giustizia, dello speciale programma di protezione. Si richiede, cioè, un maggiore impegno di risorse e più che altro una maggiore attenzione delle istituzioni, non tanto sul versante della sicurezza – il cui continuo miglioramento si è apprezzato nel corso del tempo – quanto alla qualità della vita dei testimoni stessi. L’obiettivo più ambizioso è creare un sistema che spinga sempre più cittadini alla denuncia, perché lo Stato è capace di garantire loro l’incolumità e la immutata conservazione dei loro diritti. In attesa che ciò possa realizzarsi, ci si deve chiedere se, realmente per tutti i testimoni di giustizia attuali e per quelli del passato, sussisteva l’inevitabile necessità di ricorrere a quegli eccezionali strumenti di tutela che si sono rivelati mortificanti di libertà e dignità, come più volte denunciato dagli stessi interessati, e se non vi fossero soluzioni più graduate e adeguate alle loro esigenze. Non è semplice rispondere a questa domanda, fosse solo perché la storia di ciascun testimone e di ciascun ambiente in cui è maturata la collaborazione, è diversa dalle altre. Sicuramente, però, come si è detto, sono talvolta intervenuti fattori «esterni» quali la difficoltà di misurazione del pericolo; la «comodità» della gestione del testimone in località protetta piuttosto che in località di origine; l’avvio del procedimento di protezione che non prevede una fase preliminare, da svolgersi a livello locale e con il contributo della DNA, per una valutazione più attenta e concreta dei possibili rimedi; la inspiegabile desuetudine dei sistemi di protezione ordinaria; la sovraesposizione «giudiziaria» a cui è talvolta costretto il testimone, della quale hanno parlato i rappresentanti delle associazioni antiracket e che potrebbe essere evitata con una più attenta ponderazione degli interessi in gioco.
2) La legge deve ricondurre il rapporto Stato-testimone al di fuori del concetto di collaborazione, cioè di «partecipazione con altri», e ripensare all’impegno tra le parti come un atto unilaterale di riconoscimento del debito che ha, come unico «corrispettivo», l’assunzione in capo al testimone del dovere di riservatezza, senza il quale si vanificherebbe l’intero sistema di protezione; Come si è detto, il testimone di giustizia, a differenza del collaboratore, non può essere obbligato, neppure implicitamente, a condotte o sacrifici abnormi rispetto alle reali esigenze di sicurezza, per ottenere il riconoscimento e la tutela dei suoi diritti da parte dello Stato.Pag. 67
3) la legge deve ricostruire puntualmente il profilo del testimone di giustizia, attualmente offuscato dalle similitudini con i collaboratori di giustizia, da un lato, e con i familiari delle vittime di mafia, dall’altro. Figure queste che, entrambe e per ragioni diverse, non sono assimilabili, nel rapporto con lo Stato, ai testimoni di giustizia. Deve, ancora a tal proposito, assumere scelte chiare sui requisiti soggettivi di accesso allo status di testimone di giustizia, specie con riferimento ai testimoni oggi definiti, attraverso discutibili criteri, border line. A tal fine, potrebbe essere utile utilizzare il parametro della «terzietà», nei termini precedentemente definiti.
4) Una legge di protezione ha senso se hanno un senso le dichiarazioni rispetto alle quali insorge il dovere di tutela. Come si è detto, solo se si valorizzano, nei termini illustrati, il contenuto e la qualità delle propalazioni, il sistema può essere pensato in maniera tale sia da evitare usi strumentali, sia da non risolversi in un circolo vizioso a scapito dello stesso testimone. Infatti, da un lato non è ammissibile che anche i calunniatori possano avere accesso alla protezione speciale e dall’altro che colui che denuncia un delitto di mafia, quindi una fattispecie in sé altamente pericolosa, non potrà mai più ritrovare la sua autonomia. Le dichiarazioni, quindi, devono, intanto, essere attendibili secondo quei più rigorosi criteri elaborati dalla giurisprudenza per i casi in cui il dichiarante sia portatore di un interesse proprio; interesse che astrattamente ricorre quando vi è la possibilità di accedere ad un sistema di mantenimento statale. Le dichiarazioni, devono, inoltre, offrire un apprezzabile apporto investigativo o processuale, senza il quale è difficile immaginare e misurare nel tempo una situazione di pericolo che sfugga ai mezzi ordinari di tutela; cioè, come detto, tali dichiarazioni, pur indipendentemente dalla loro effettiva rilevanza processuale, devono riferirsi a fatti e/o soggetti concreti. Di converso, lo stato e il grado del procedimento vanno apprezzati (insieme ai diversi altri indici di pericolo) ai fini della misurazione della persistenza e consistenza della situazione di rischio. Parallelamente, va modificato l’articolo 392 del codice di procedura penale, inserendo tra i casi di incidente probatorio, anche l’audizione del testimone di giustizia, anche al fine di rendere meno traumatica possibile l’esperienza processuale.
5) La legge – per il solo caso di concreta impossibilità a contenere diversamente la situazione di pericolo e da applicare solo in presenza dei requisiti soggettivi e oggettivi indicati – deve assicurare un sistema a misura di individuo. A tale riguardo è necessario:
prevedere che, dall’avvio della protezione speciale e sino a quando il testimone non riacquisti la sua autonomia, sia costituito dalla Commissione centrale il «comitato multidisciplinare di assistenza» descritto nel corso della relazione, e nel cui ambito, da subito, verrà individuato un referente come punto di riferimento, immediato e futuro, del protetto. Il comitato, tramite il suo referente, dovrà svolgere i compiti già indicati, tra cui rendere partecipe e consapevole l’interessato dell’iter del procedimento; svolgere una preliminare e tempestiva attività ricognitiva della situazione patrimoniale del protetto; fornirgli, se il testimone presta il suo consenso, sistematica Pag. 68assistenza per tutte le vicende personali e patrimoniali che possono subire nocumento dal sistema di protezione o connesse con esso;
riformulare le misure di assistenza economica, da non distinguere più in rigide categorie, ma prevedere una serie di mezzi tra i quali, di volta in volta, individuare, con il contributo del predetto comitato, quelle adeguate al caso specifico, e a prescindere, a differenza dello stato attuale, dalla collocazione del testimone in località protetta o in località di origine;
affidare i compiti di coordinamento per la vigilanza e la tutela al personale specializzato dell’attuale sezione del Servizio centrale di protezione dedicata ai testimoni, per qualunque forma di protezione;
potenziare, quindi, la sezione del Servizio centrale di protezione dedicata ai testimoni di giustizia, in ragione delle nuove competenze ipotizzate;
prevedere l’impiego di personale specializzato in materia di tutela da applicare presso le forze di polizia territoriali che, di volta in volta, sono chiamate ad assicurare la vigilanza e le misure di sicurezza per il protetto e il suo nucleo familiare;
prevedere, qualora il soggetto non possa esercitare l’attività lavorativa a causa della testimonianza, il reinserimento lavorativo immediato, anche se provvisorio o anche non retribuito;
stabilire un termine per il reperimento del lavoro definitivo, consono alla professionalità e alla capacità del testimone e alla precedente attività lavorativa, o in alternativa elaborare, finanziare e realizzare un progetto lavorativo o un sistema di erogazione continuata, in maniera proporzionata all’attività precedentemente svolta; in subordine ancora, prevedere, se sussistono i requisiti, la pubblica assunzione;
prevedere che i testimoni allontanati dalla località di origine possano risiedere, su base volontaria, unitamente al nucleo familiare, anche presso strutture comunitarie protette, accreditate dalla Commissione centrale, ove svolgere attività lavorativa o di volontariato;
quantificare l’assistenza economica con criteri certi e codificati sulla falsariga dei criteri elaborati dalla Commissione centrale e come integrati dalla giurisprudenza del Tribunale amministrativo regionale del Lazio;
assicurare al testimone il godimento di beni e servizi di cui usufruiva in maniera proporzionata ai suoi redditi, prima dell’avvio del sistema di protezione;
garantire la conservazione del patrimonio mobiliare e immobiliare nello stato in cui si trovava prima dell’avvio del sistema di protezione;
assicurare, tramite il citato comitato di assistenza, la prosecuzione dell’attività di impresa del testimone trasferito in località protetta e supportare l’attività di impresa del testimone rimasto in località di origine e che possa subire o abbia subito nocumento, diretto Pag. 69o indiretto, per la testimonianza, attraverso i sistemi di sostegno già illustrati nel corpo della relazione: tra gli altri, periodi di tassazione ridotta o sospesa, forme di convenzioni con enti pubblici e privati per forniture di beni e servizi, titoli preferenziali, a parità di condizione, per la partecipazione a gare pubbliche, fino ad assicurare, qualora necessario, forme di sostentamento. Va anche rilevato, al riguardo, che la Commissione parlamentare antimafia nella «Relazione sulle prospettive di riforma del sistema di gestione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata», approvata il 9 aprile 2014 (Doc. XXIII, n. 1), ha già espresso l’auspicio che l’Agenzia Nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata si doti di strumenti di comunicazione informatica idonei a facilitare le collaborazioni fra amministratori giudiziari, a rendere possibile la creazione di una «rete» delle imprese sequestrate e confiscate e a sopperire in parte, per tale via, alle difficoltà operative che spesso rendono faticosa la prosecuzione dell’attività di impresa. Sarebbe opportuno inserire in questa rete anche le aziende dei testimoni di giustizia (anche di quelli in località protetta) che versino in difficoltà economica a causa della testimonianza o della sottoposizione al sistema di protezione;
stabilire una rigida scansione temporale per la verifica periodica delle misure – da considerarsi sempre e comunque «transitorie» – che va di volta in volta rapportata al pericolo concreto – quindi anche allo stato e grado del procedimento – e che deve essere tendenzialmente rivolta alla graduale attenuazione del sistema protettivo e alla autonomizzazione del protetto.

  (1) Cfr. il sito Internet dell’associazione: http://associazionetestimonidigiustizia.jimdo.com.

  (2) Si tralasciano le misure di «eccezionale urgenza», di brevissima durata, adottate in situazioni particolarmente gravi che non consentono di attendere l’intervento della Commissione centrale, ex articolo 13, comma 1, del decreto legge 15 gennaio 1991, n. 8.

  (3) Cfr. audizione presso la Commissione parlamentare d’inchiesta del presidente dell’associazione antiracket e antiusura Addiopizzo, Daniele Marannano del 18 giugno 2014.

  (4) Cfr. audizione presso la Commissione parlamentare d’inchiesta del presidente onorario della Federazione delle associazioni antiracket e antiusura italiane (FAI), Tano Grasso del 25 giugno 2014.

  (5) Doc. 325.6.

  (6) Cfr. sentenza Tar Lazio n. 2288 del 4 marzo 2013.

  (7) Cfr. relazione depositata dal Viceministro dell’interno, Filippo Bubbico durante l’audizione presso la Commissione parlamentare d’inchiesta dell’8 maggio 2014 (Doc. 189.3); cfr. anche «Relazione sui testimoni di giustizia» redatta dalla Commissione parlamentare antimafia della XV legislatura «Nei fatti, invece, per la maggior parte dei casi, le situazioni vissute dal testimone risultano border line, in quanto riconducibili a pregressi – e talvolta continuativi – rapporti con soggetti e ambienti della criminalità organizzata. Si tratta, nella massima parte, di persone che, soprattutto in ragione dell’attività imprenditoriale o lavorativa svolta, sono entrati in contatto con il sistema delinquenziale di tipo mafioso, divenendone vittime».

  (8) Cfr. audizione presso il V Comitato della Commissione parlamentare d’inchiesta del sostituto procuratore presso la Direzione nazionale antimafia, dott. Maurizio De Lucia, del 20 giugno 2014.

  (9) Cfr. relazione depositata dal Viceministro dell’interno, Filippo Bubbico durante l’audizione presso la Commissione parlamentare d’inchiesta dell’8 maggio 2014 (Doc. 189.3) e l’audizione del 13 giugno 2014 presso il V Comitato della Commissione di Nadia Furnari dell’associazione Antimafie Rita Atria, nonché la «Relazione sui testimoni di giustizia» redatta dalla Commissione parlamentare antimafia della XV legislatura: «Nei fatti, invece, per la maggior parte dei casi, le situazioni vissute dal testimone risultano border-line (..)Si tratta, nella massima parte (..) di persone che risultano inserite in un contesto fortemente compromesso dal condizionamento mafioso o persone legate da relazioni di parentela diretta o indiretta con soggetti mafiosi o ad essi contigui».

  (10) È il tipico caso delle cosiddette donne di mafia – da distinguere dalle donne mafiose – che diventano il primo anello della trasmissione ai figli dei codici mafiosi e le garanti della «onorabilità» dei loro congiunti.

  (11) Cfr. relazione depositata dal Viceministro dell’interno, Filippo Bubbico durante l’audizione presso la Commissione parlamentare d’inchiesta dell’8 maggio 2014 (Doc. 189.3).

  (12) Cfr. relazione depositata dal Viceministro dell’interno, Filippo Bubbico durante l’audizione presso la Commissione parlamentare d’inchiesta dell’8 maggio 2014 (Doc. 189.3): «le particolari misure di carattere economico previste dalla legge per i testimoni di giustizia (..) non possono essere in alcun modo erogate in favore di soggetti anche solo in probabile rapporto con la criminalità organizzata. Basti pensare che, tra le misure(..) figura il diritto di ottenere l’acquisizione al patrimonio dello Stato dei beni immobili, ubicati in località di origine. Nel caso di ammissione alle misure speciali di protezione in qualità di testimone di giustizia di un soggetto gravitante – ancorché indirettamente – nei circuiti criminali, vi sarebbe la concreta probabilità che questi possa richiedere l’acquisizione al patrimonio dello Stato di beni frutto di attività illecita, realizzando un paradossale effetto di “riciclaggio” dei beni ad opera ed in danno dello Stato».

  (13) Articolo 2 quinquies della legge 28 novembre 2008, n. 186 che modifica la legge n. 20 ottobre 1990, n. 302.

  (14) Cfr. sentenza del TAR Lazio del 23 aprile 2013, n. 4050.

  (15) Cfr. sentenza del TAR Lazio del 20 gennaio 2014, n. 667.

  (16) Cfr. relazione depositata dal Viceministro dell’interno, Filippo Bubbico durante l’audizione presso la Commissione parlamentare d’inchiesta dell’8 maggio 2014 (Doc. 189.3): «Dunque, solo quando la Commissione accerta l’assoluta estraneità del soggetto a contesti criminali, gli viene riconosciuto lo status di testimone di giustizia, anche in considerazione della circostanza che le particolari misure di carattere economico previste dalla legge per i testimoni di giustizia – dall’acquisizione dei beni immobili al patrimonio dello Stato, all’assistenza di un professionista per le questioni civili, al pagamento di debiti conseguenti alle attività illecite subite, al mantenimento del tenore di vita – non possono essere in alcun modo erogate in favore di soggetti anche solo in probabile rapporto con la criminalità organizzata. (..) A seguito di tali riflessioni, la Commissione da me presieduta ha valutato l’opportunità che, nell’ambito della necessaria individualizzazione dei piani di protezione, venga operata una differenziazione delle misure di assistenza economica da attribuire in ragione della storia personale del testimone. Tale modus operandi dovrà comunque trovare opportuna codificazione normativa attraverso il riconoscimento di un numero più limitato di benefici economici ai soggetti che, pur rivestendo la qualifica processuale di testimone e necessitando perciò di protezione personale, non sono in possesso della totalità dei requisiti di assoluta estraneità a contesti criminali, per come precedentemente definiti».

  (17) Tra le misure economiche previste del decreto legge 1991, n. 8, che potrebbero giovare indirettamente ad una associazione mafiosa, infatti, l’unica è quella dell’acquisizione al patrimonio dello Stato degli immobili del testimone di giustizia, posto che le altre si limitano a ricostruire il medesimo tenore di vita del soggetto e in base ai redditi leciti dichiarati. Nondimeno tale strumento, come accertato nel corso dell’inchiesta parlamentare, è stato utilizzato di rado e, in ogni caso, si è rivelato una perdita economica per il proprietario. Del resto, basterebbero semplici correttivi per evitare l’acquisizione di beni che siano di dubbia provenienza o sperequati a fronte del reddito dichiarato.

  (18) Seppure la citata relazione concludeva per calibrare la figura del testimone di giustizia «sul modello di cittadino che non ha mai svolto attività illegali o ha avuto appartenenze con ambiti criminali e che, con senso di responsabilità e coraggio, rende testimonianza, riferendo o denunciando, alla magistratura e alle forze dell’ordine, fatti specifici e circostanziati, riguardanti la criminalità organizzata».

  (19) Cfr. audizione presso il V Comitato della Commissione parlamentare d’inchiesta del sostituto procuratore presso la Direzione nazionale antimafia, dott. Maurizio De Lucia, del 20 giugno 2014.

  (20) Invero, oltre al fatto che le rivelazioni devono concernere specifici gravi delitti e devono essere di notevole importanza per le indagini o per il processo, si è altresì disposto che la situazione di pericolo va valutata tenendo conto anche «dello spessore delle condotte di collaborazione» e «della rilevanza e della qualità delle dichiarazioni rese» e che, per misurare il cessato o il ridotto pericolo ai fini della modifica o della revoca della misura di protezione, bisogna considerare «la fase e il grado in cui si trovano i procedimenti penali nei quali le dichiarazioni sono state rese».

  (21) Si pensi al caso in cui il soggetto, mosso dall’intento di godere dell’assistenza economica del decreto legge 1991, n. 8, renda mendaci dichiarazioni accusatorie che, ben infarcite dal cosiddetto «fondo di verità», risultino intrinsecamente attendibili: ad esempio, il socio dell’imprenditore mafioso che qualifica quel rapporto, effettivamente esistente e documentabile, come di natura estorsiva. Qualora l’imputato sia condannato con il contributo di quell’accusa, il risultato è quello, non solo dell’immeritato accesso al sistema tutorio del testimone, ma di una condanna ingiusta – pur solo in minima parte – ottenuta, anche, tramite le propalazioni di un teste, mendace, dotato di una patente di attendibilità da parte dello Stato. Qualora l’imputato sia assolto, la conseguenza è a dir poco singolare. Infatti, in ragione della mancanza di collegamento tra dichiarazione e pericolo, è astrattamente ipotizzabile che il prosciolto – che ha subito un processo e talora è stato sottoposto alla carcerazione preventiva – conservi o maturi disegni di ritorsione. Ne deriva che per il testimone di giustizia – mendace – aumenta la situazione di pericolo e con essa la durata del programma tutorio con i suoi, in tal caso, benefici.

  (22) I testimoni di giustizia sono attualmente 80, 267 i familiari, mentre i collaboratori ammontano a 1144, oltre a 4617 familiari.

  (23) Cfr. «Relazione sui programmi di protezione, sulla loro efficacia e sulle modalità generali di applicazione per coloro che collaborano con la giustizia» (Doc. XCI, n. 4), relativa al secondo semestre 2013, che il Ministro dell’interno presenta semestralmente al Parlamento, ai sensi dell’articolo 16 del decreto legge 15 gennaio 1991, n. 8.

  (24) Cfr. audizione presso la Commissione parlamentare d’inchiesta del Viceministro dell’interno, Filippo Bubbico, dell’8 maggio 2014.

  (25) Cfr. audizione presso la Commissione parlamentare d’inchiesta del presidente dell’associazione antiracket e antiusura Addiopizzo, Daniele Marannano del 18 giugno 2014.

  (26) Cfr. audizione presso il V Comitato della Commissione parlamentare d’inchiesta del colonnello Mannucci Benincasa, componente della Commissione centrale per la definizione e applicazione delle speciali misure di protezione del 18 luglio 2014.

  (27) Cfr. relazione depositata dal Viceministro dell’interno, Filippo Bubbico durante l’audizione presso la Commissione parlamentare d’inchiesta dell’8 maggio 2014 (Doc. 189.3).

  (28) Cfr. relazione depositata dal Viceministro dell’interno, Filippo Bubbico durante l’audizione presso la Commissione parlamentare d’inchiesta dell’8 maggio 2014 (Doc. 189.3).

  (29) Cfr. «Relazione sui testimoni di giustizia» approvata il 19 febbraio 2008, nella XV legislatura, dalla Commissione parlamentare d’inchiesta (Doc. XXIII, n. 6).

  (30) Cfr. relazione depositata dal Viceministro dell’interno, Filippo Bubbico durante l’audizione presso la Commissione parlamentare d’inchiesta dell’8 maggio 2014 (Doc. 189.3).

  (31) Secondo l’articolo 7 del citato regolamento ministeriale, le speciali misure di protezione, anche per il testimone di giustizia, possono consistere in: misure di vigilanza e di tutela da eseguire a cura degli organi di polizia territorialmente competenti; accorgimenti tecnici di sicurezza per le abitazioni o per gli immobili di pertinenza degli interessati consistenti anche in strumenti di video sorveglianza e di teleallarme; misure necessarie per i trasferimenti in comuni diversi da quelli di residenza; (..) interventi contingenti, anche di carattere economico, finalizzati ad agevolare il reinserimento sociale.

  (32) Cfr. «Relazione sui testimoni di giustizia» approvata il 19 febbraio 2008, nella XV legislatura, dalla Commissione parlamentare d’inchiesta (Doc. XXIII, n. 6).

  (33) Cfr. audizione presso il V Comitato della Commissione parlamentare d’inchiesta del sostituto procuratore presso la Direzione nazionale antimafia, dott. Maurizio De Lucia, del 20 giugno 2014.

  (34) Cfr. audizione presso la Commissione parlamentare d’inchiesta del presidente dell’associazione antiracket e antiusura Addiopizzo, Daniele Marannano del 18 giugno 2014 e le audizioni presso il V Comitato della Commissione parlamentare d’inchiesta del sostituto procuratore presso la Direzione nazionale antimafia, dott. Maurizio De Lucia, del 20 giugno 2014 e del colonnello Mannucci Benincasa, componente della Commissione centrale per la definizione e applicazione delle speciali misure di protezione del 18 luglio 2014.

  (35) Cfr. relazione depositata dal Viceministro dell’interno, Filippo Bubbico durante l’audizione presso la Commissione parlamentare d’inchiesta dell’8 maggio 2014 (Doc. 189.3): «la Commissione ha condiviso l’opportunità di procedere a modifiche normative dirette, da un canto, a privilegiare il mantenimento dei testimoni di giustizia in località di origine, dall’altro, a prevedere il potenziamento degli strumenti di sostegno, anche di natura economica». Cfr., inoltre, l’audizione presso il V Comitato della Commissione parlamentare d’inchiesta del colonnello Mannucci Benincasa, componente della Commissione centrale per la definizione e applicazione delle speciali misure di protezione del 18 luglio 2014, che, tra l’altro, ai fini di una parificazione sostanziale tra testimone di giustizia in loco e in località protetta, propone di introdurre la possibilità dell’acquisizione al patrimonio dello Stato dell’impresa.

  (36) Le misure di assistenza economica, secondo l’articolo 8 del regolamento, comprendono: 1) un assegno di mantenimento nel caso di impossibilità di svolgere attività lavorativa, secondo le modalità e nei limiti fissati dall’articolo 13, comma 6, della legge 15 marzo 1991, n. 82 e dalla Commissione centrale, cioè non può superare di cinque volte la misura del cosiddetto assegno sociale, ma l’assegno può essere integrato dalla Commissione per circostanze strettamente collegate alle esigenze di tutela; 2) la sistemazione e le spese alloggiative; 3) le spese per i trasferimenti giustificati da motivi di sicurezza, sanitari o di reinserimento sociale; 4) le spese per esigenze sanitarie, quando non sia possibile avvalersi delle strutture pubbliche ordinarie; 5) l’assistenza legale.

  (37) Cfr. da ultimo sentenza TAR Lazio 23 gennaio 2014, n. 860.

  (38) Peraltro, anche in tema di mancato guadagno, non sono nemmeno mancate defatiganti richieste risarcitorie a catena da parte dello stesso testimone per mancanza di sistemi certi di determinazione e quantificazione della perdita dell’impresa.

  (39) Cfr. «Relazione sui testimoni di giustizia» approvata il 19 febbraio 2008, nella XV legislatura, dalla Commissione parlamentare d’inchiesta (Doc. XXIII, n. 6).

  (40) Determinata secondo i parametri di cui all’articolo 10, comma 15, del regolamento e pari all’importo di mantenimento erogato per dieci anni, mentre per i collaboratori può comprendere un periodo massimo di cinque anni.

  (41) Articolo 10 del decreto del Ministro dell’interno 23 aprile 2004, n. 161.

  (42) Cfr. «Relazione sui testimoni di giustizia» approvata il 19 febbraio 2008, nella XV legislatura, dalla Commissione parlamentare d’inchiesta (Doc. XXIII, n. 6).

  (43) Cfr. audizione presso la Commissione parlamentare d’inchiesta del Viceministro dell’interno, Filippo Bubbico, dell’8 maggio 2014.

  (44) Cfr. audizione presso il V Comitato della Commissione parlamentare d’inchiesta del colonnello Mannucci Benincasa, componente della Commissione centrale per la definizione e applicazione delle speciali misure di protezione del 18 luglio 2014.

  (45) Cfr. «Relazione sui testimoni di giustizia» approvata il 19 febbraio 2008, nella XV legislatura, dalla Commissione parlamentare d’inchiesta (Doc. XXIII, n. 6).

  (46) Cfr. «Relazione sui testimoni di giustizia» approvata il 19 febbraio 2008, nella XV legislatura, dalla Commissione parlamentare d’inchiesta (Doc. XXIII, n. 6).

  (47) Cfr. nota depositata da Nadia Furnari dell’associazione Antimafie Rita Atria durante l’audizione del 13 giugno 2014 presso il V Comitato della Commissione parlamentare d’inchiesta (Doc. 260/1).

  (48) Nella giurisprudenza amministrativa del Tar Lazio viene molto spesso richiamata la delibera della Commissione centrale del 30 luglio 2009.

  (49) La quantificazione del danno è rimessa ai medici dell’INPS e la relativa domanda deve essere presentata «in prossimità della fuoriuscita dal programma ed in unica soluzione, anche per i familiari, al fine di evitare reiterazione di richieste.

  (50) Cfr. sentenza del Tar Lazio del 12 febbraio 2013, n. 1550.

  (51) Cfr. «Relazione sui testimoni di giustizia» approvata il 19 febbraio 2008, nella XV legislatura, dalla Commissione parlamentare d’inchiesta (Doc. XXIII, n. 6).

  (52) Cfr. audizione presso la Commissione parlamentare d’inchiesta del Viceministro dell’interno, Filippo Bubbico, dell’8 maggio 2014: «Anche su questo fronte c’è un problema di natura culturale, che va affrontato e affermato. Nell’attività della Commissione noi ci siamo trovati continuamente di fronte a situazioni di questo genere. Quelle modalità garantiscono i furbi e danneggiano le persone perbene e indifese, che non sanno farsi rappresentare o che non sanno pretendere. Non può, dunque, valere il principio secondo il quale uno ottiene sei milioni di euro e un altro ottiene 80.000 euro perché non ha saputo rappresentare o non ha saputo costruire intorno al suo caso quel consenso che garantisce poi determinati risultati».

  (53) Cfr. «Relazione sui testimoni di giustizia» approvata il 19 febbraio 2008, nella XV legislatura, dalla Commissione parlamentare d’inchiesta (Doc. XXIII, n. 6).

  (54) Cfr. audizione del 13 giugno 2014 presso il V Comitato della Commissione di Nadia Furnari dell’associazione Antimafie Rita Atria: «La persona che arriva dal magistrato molto spesso non sa cosa le toccherà. Il tutor è la persona intermediaria tra le forze dell’ordine e il testimone perché è quella che filtra le modalità con le quali parlare al testimone. (..). Spingiamo da anni sulla figura del tutor perché abbiamo riscontrato che prima del problema del lavoro o della sicurezza, tutti i testimoni di giustizia – questo, però, succede anche per i bambini dei collaboratori – hanno un problema psicologico. Ciò vale soprattutto per quelli che vengono portati in località protetta. Si viene sottoposti a un programma di protezione perché la propria vita e quella dei propri familiari è in pericolo. Se ci pensate, è la stessa dinamica di quando una persona si ammala gravemente e rischia la vita, quindi occorre un tutoraggio quasi sanitario, per spiegare e rendere consapevole la persona del pericolo. Questa cosa, però, è sempre mancata».

  (55) Cfr. relazione depositata dal Viceministro dell’interno, Filippo Bubbico durante l’audizione presso la Commissione parlamentare d’inchiesta dell’8 maggio 2014 (Doc. 189.3).

  (56) L’articolo 9 del decreto legge 15 gennaio 1991, n. 8, al comma 1, prevede che «Le persone nei cui confronti è stata avanzata proposta di ammissione alle speciali misure di protezione devono rilasciare all’ autorità proponente completa e documentata attestazione riguardante il proprio stato civile, di famiglia e patrimoniale, gli obblighi a loro carico derivanti dalla legge, da pronunce dell’autorità o da negozi giuridici, i procedimenti penali, civili e amministrativi pendenti, i titoli di studio e professionali, le autorizzazioni, le licenze, le concessioni e ogni altro titolo abilitativo di cui siano titolari (..).,».

  (57) Articolo 12 del decreto legge 15 gennaio 1991, n. 8, e articolo 9 del decreto del Ministro dell’interno 23 aprile 2004, n. 161.

  (58) Emblematico è, a tal proposito, quanto riferito dall’avvocato Giovanna Fronte, nell’audizione del 13 giugno 2014 presso il V Comitato della Commissione parlamentare d’inchiesta: «(…) le forze dell’ordine – come i NOP che fanno i primi test per l’ingresso – o la magistratura si limitano a descrivere quello che è previsto nella legge. Il problema è che poi l’iter burocratico è completamente diverso da quello che è previsto nella legge. (…) mi è capitato un caso di un testimone di giustizia che ho assistito (…) a cui ho cercato di spiegare che è vero che sarebbe andato in un hotel fino a che non gli trovavano la destinazione, ma che nessuno poteva assicurare i tempi di permanenza presso la struttura recettizia, insieme ad altri aspetti (…) A quel punto, il signore non ha sottoscritto il programma di protezione e si è allontanato (…).».

  (59) Un altro esempio offerto dall’avvocato Giovanna Fronte (audizione del 13 giugno 2014 presso il V Comitato della Commissione parlamentare d’inchiesta) aiuta ad esplicitare la questione: «Un caso molto eclatante è quello di una signora – una delle prime testimoni di giustizia, che è entrata in programma nel 1992-1993 e ne è uscita nel 2002 – a cui era stata instaurata una procedura fallimentare (tra le altre cose, anomala, illegittima e quant’altro), nel momento in cui ha dovuto lasciare la località di origine e andare via. Dopodiché, la procedura fallimentare è andata avanti per i fatti suoi. La signora, a cui era stato detto di non preoccuparsi perché era tutto sotto controllo, quando è rientrata nel 2010 in località d’origine, dopo essere fuoriuscita dal programma, si vede arrivare a casa il consulente tecnico d’ufficio nominato dal tribunale per la valutazione del proprio compendio immobiliare».

  (60) Un esempio illuminante è riferito ancora dall’avvocato Giovanna Fronte (audizione del 13 giugno 2014 presso il V Comitato della Commissione parlamentare d’inchiesta): «L’imprenditore, commerciante o artigiano che è stato vittima dell’usura, oltre a questo reinserimento generico previsto dalla legge n. 45, ha la possibilità di rientrare nel circuito economico legale del Paese, grazie ai fondi previsti dalla legge n. 44 e al mutuo previsto dalla legge n. 108, del 1996 se è stato vittima di usura. Allora, inizialmente, il soggetto viene preso e portato via, ma non gli viene data un’assistenza adeguata, cioè con un legale che sia formato in questo settore. Il più delle volte viene nominato un avvocato penalista, che lo seguirà per i processi penali. Mi sono ritrovata di fronte a delle situazioni ormai decadute di testimoni e vittime di racket e usura fuorusciti dal programma di protezione che non avevano mai presentato le istanze di accesso ai fondi antiracket e antiusura».