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Da L’ESPRESSO”.Ecco chi comanda in Italia”.In talune parti del Paese implicati anche alcuni appartenenti alle forze dell’ordine?

Mafia, ecco chi comanda in Italia

Nella relazione del procuratore nazionale antimafia Franco Roberto uno spaccato delle organizzazioni criminali che soffocano il Paese: da Cosa nostra alla ‘ndrangheta, dalla camorra a mafia Capitale. Un fenomeno che si estende da nord a sud con infiltrazioni nel mondo della politica e degli affari

di Lirio Abbate

24 febbraio 2015

Mafia, ecco chi comanda in Italia L’invasione su tutto il territorio nazionale delle mafie – la loro potenza criminale oltre alla forza di infiltrazione nell’economia legale e nella politica – viene descritta nella relazione annuale svolta dal procuratore nazionale antimafia, Franco Roberto, e dalla Direzione nazionale antimafia. I magistrati di via Giulia hanno puntato ad aggiornare e comprendere meglio come le varie organizzazioni mafiose, sia quelle tradizionali (Cosa nostra, camorra, ‘ndrangheta, Sacra corona unita e criminalità organizzata pugliese), sia quelle di matrice straniera, si siano strutturate sul territorio. Altro aspetto analizzato dai magistrati riguarda l’opera di coordinamento delle indagini, sia fra le procure italiane, sia fra queste e quelle straniere, poirché sempre più spesso vengono individuati interessi dei clan all’estero.

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La Dna approfondisce anche temi sulla configurazione delle relazioni tra le varie mafie, la perdurante forte centralità del controllo del territorio nelle sue diversificate modalità e manifestazioni, le sempre più frequenti commistioni con fenomeni di criminalità organizzata non tradizionalmente mafiosa. Ad esempio: la criminalità economica e quella terroristica.

COSA NOSTRA

Per quanto riguarda la mafia siciliana, in particolare quella fra Palermo, Trapani e Agrigento, i tanti arresti e i sequestri di beni che hanno colpito gli affiliati non hanno innescato un processo «di “balcanizzazione” dell’organizzazione mafiosa Cosa nostra e un suo inarrestabile declino». I magistrati confermano «che la città di Palermo è e rimane il luogo in cui l’organizzazione criminale esprime al massimo la propria vitalità sia sul piano decisionale (soprattutto) sia sul piano operativo, dando concreta attuazione alle linee strategiche da essa adottate in relazione alle mutevoli esigenze imposte dall’attività di repressione continuamente svolta dall’autorità giudiziaria e dalla polizia giudiziaria».

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Continua ad emergere, come dato fondamentale delle linee strategiche dell’agire di Cosa nostra, «il continuo e costante tentativo di ristrutturare e fare risorgere le strutture centrali di governo dell’organizzazione criminale, in particolare la commissione provinciale di Cosa nostra di Palermo, pesantemente colpite dalle iniziative investigative e processuali».

Dalle indagini emerge come, a più riprese, Cosa nostra abbia tentato di rinnovarsi attraverso una conferma delle sue strutture di governo, a cominciare da quelle operanti sul territorio di Palermo, «a conferma che anche nei momenti di crisi Cosa nostra non rinuncia all’elaborazione di modelli organizzativi unitari e a progetti volti ad assicurarne la sopravvivenza nelle condizioni di maggiore efficienza possibile».

I magistrati segnalano «che l’assenza in Cosa nostra palermitana di personaggi di particolare carisma criminale in stato di libertà, seppure latitanti, non ha riproposto la violenta contrapposizione interna tra famiglie e mandamenti del passato». «Allo stato deve piuttosto registrarsi una cooperazione di tipo orizzontale tra le famiglie mafiose della città di Palermo, volta a garantire la continuità della vita dell’organizzazione ed i suoi affari. Tra questi in particolare devono segnalarsi un rinnovato interesse per il traffico di stupefacenti e per la gestione dei “giochi” sia di natura legale che illegale. In tal modo l’organizzazione mafiosa nel suo complesso sembra, in sintesi, aver attraversato e superato, sia pure non senza conseguenze sulla sua operatività, il difficile momento storico dovuto alla fruttuosa opera di contrasto dello Stato ed aver recuperato un suo equilibrio».

Grande importanza viene data dalla Dna alla cattura della totalità dei grandi latitanti di mafia palermitani che «ha certo costituito un segnale fortissimo della capacità dello Stato di opporsi a Cosa nostra demolendo il luogo comune della impunibilità di alcuni mafiosi e la conseguente loro autorevolezza e prestigio criminale; in ciò risiede la speciale importanza, a Palermo e in tutta la Sicilia occidentale, di tale attività investigativa».

Da qui l’attenzione sull’ultimo grande latitante di mafia: «Ancora si sottrae alla cattura Matteo Messina Denaro, storico latitante, capo indiscusso delle famiglie mafiose del trapanese, che estende la propria influenza ben al di là dei territori indicati. Il suo arresto non può che costituire una priorità assoluta ritenendosi che, nella descritta situazione di difficoltà di Cosa nostra, il venir meno anche di questo punto di riferimento, potrebbe costituire, anche in termini simbolici, così importanti in questi luoghi, un danno enorme per l’organizzazione». L’attenzione della procura nazionale è rivolta anche alle inchieste dei colleghi della Dda di Caltanissetta, a cominciare dall’impegno che richiede «l’indagine in corso nei confronti di Salvatore Riina, anche a seguito della registrazione dei suoi colloqui con Alberto Lo Russo, intrattenuti nella struttura detentiva Opera, di Milano».

I pm di via Giulia analizzano le intercettazioni di Riina scrivendo: «Del tutto inaspettatamente, il capo mafia ha preso a parlare apertamente, intrattenendo il compagno di detenzione sui più disparati temi: dalla sua storia criminale, all’ideazione delle stragi di Capaci e di via D’Amelio, a quelle commesse nel 1993/94 nel continente, al processo cosiddetto “Trattativa” in corso avanti la Corte d’Assise di Palermo, alle reiterate minacce di morte rivolte al magistrato Di Matteo. L’indagine ha ovvie connessioni con quelle condotte sulle stragi. L’investigazione, inoltre, ha determinato anche il monitoraggio di soggetti vicini a Riina, con indubbi risvolti penalmente rilevanti nei loro confronti ed in via di compiuto accertamento». Indagini sono dunque in corso su questo punto. Come pure sui numerosi esposti anonimi in cui si rivelano attentati ai danni di magistrati di Palermo: «Particolare considerazione investigativa merita il tenore delle dichiarazioni intercettate in carcere a carico di Salvatore Riina, che ha esplicitamente ipotizzato l’eliminazione fisica del pm Di Matteo e non ha lesinato parole di minaccia nei confronti di chiunque svolga attività di contrasto allo strapotere di Cosa nostra».

Altro procedimento che per la Dna «merita menzione» è quello sul “Protocollo fantasma”. «Trattasi di un esposto anonimo nel quale oltre a varie vicende, in gran parte di competenza della Ddda di Palermo, riguardanti processi anche risalenti nel tempo ed appartenenti alla storia del contrasto giudiziario a Cosa nostra, emergono notizie di reato a carico di ignoti, asseritamente appartenenti alle forze dell’ordine, che avrebbero per conto di una non meglio specificata entità, spiato alcuni magistrati, impegnati in delicate attività di indagine».

 

‘NDRANGHETA Per quanto riguarda la ‘Ndrangheta, i magistrati confermano il dato della tendenziale unitarietà dell’organizzazione criminale. Quindi l’esistenza di una sorta “consiglio di amministrazione della holding” che elegge il suo “Presidente”.

«Del resto era difficilmente ipotizzabile che ad amministrare centinaia di milioni di euro, a governare dinamiche economiche, lecite ed illecite, in decine di comparti diversi e che attraversano, non solo l’Italia, ma buona parte del pianeta (dall’Australia al Sud America, dall’Europa al Nord America passando per tutti i possibili paradisi fiscali ), potesse essere questione affidata allo spontaneismo anarcoide di gruppi criminali disseminati e slegati, di decine e decine di cosche locali, sorta di piccole monadi auto-referenziali. Regole e riconoscimento reciproco, cui conseguono ordine e coordinamento, erano e restano indispensabili».

Sotto il profilo degli interessi, le indagini hanno evidenziato, per ciò che riguarda le cosche a Reggio Calabria «la particolare capacità della ‘ndrangheta cittadina di inserirsi nella gestione delle società miste – pubblico/privato – attraverso cui vengono forniti i principali servizi pubblici alla cittadinanza. In particolare, attraverso una serie concatenata di prestanome, la ‘ndrangheta ha il controllo totale delle quote di spettanza del partner privato e, attraverso la sua capacità collusiva ed intimidatoria, riesce a condizionare la parte pubblica».

Le indagini svolte dalla Dda di Reggio Calabria hanno evidenziato la posizione di assoluta primazia della ‘ndrangheta nel traffico internazionale di stupefacenti, traffico che ha generato, e continua a generare, imponenti flussi di guadagni in favore della criminalità organizzata calabrese che reinveste, specie nel settore immobiliare, i proventi di questa attività.

«Traffico consentito anche e soprattutto dal controllo totalizzante del Porto di Gioia Tauro, ove attraverso una penetrante azione collusiva, gli ‘ndranghetisti riescono a godere di ampi, continui, si direbbe inesauribili, appoggi interni. Giova, sul punto, evidenziare che il Porto di Gioia Tauro, proprio grazie alla situazione che si è appena segnalata, è divenuta la vera porta d’ingresso della cocaina in Italia».

Fra giugno 2012 e luglio 2013 quasi la metà della cocaina sequestrata in Italia (circa 1600 chili su circa 3700 complessivi) è stata intercettata a Gioia Tauro.

 

‘NDRANGHETA AL NORD Le indagini condotte dalla Dda di Milano, hanno confermato il predominio di organizzazioni criminali di origine calabrese nel territorio «a discapito di altre compagini associative, come quella di origine siciliana».

La ‘ndrangheta, dopo anni di insediamento in Lombardia, «ha acquisito un certo grado di indipendenza rispetto all’organizzazione di origine, con la quale ha continuato comunque ad intrattenere rapporti». I suoi appartenenti vivono al Nord ormai da più generazioni, ed hanno progressivamente acquisito una piena conoscenza del territorio consolidando rapporti con le comunità locali e privilegiando contatti con rappresentanti della politica e delle istituzioni locali.

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«La presenza sul territorio lombardo di strutture ‘ndranghetiste e il radicamento nella struttura sociale e negli assetti economici lombardi dà ragione della serie innumerevole di episodi di intimidazione, accertati dall’inizio del 2006, in qualche modo riconducibili al fenomeno mafioso. Ne è emerso un quadro inquietante, costituito da un imponente numero di fatti intimidatori, tutti caratterizzati dall’omertà delle vittime (che sempre hanno dichiarato di non avere sospetti su nessuno e di non aver mai ricevuto pressioni o minacce di alcun tipo), dal fatto che ad essere colpite sono state quasi sempre cose e raramente persone (salvo che per l’usura), e dalla tendenziale non elevata intensità dell’atto intimidatorio. I fatti delittuosi, alcuni rimasti a carico di ignoti, testimoniano della condizione di assoggettamento e omertà generata dal sodalizio, del pervasivo controllo del territorio operato dalle “locali”».

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Gli stessi episodi intimidatori e le stesse reazioni delle vittime si registrano anche in Piemonte dove sono ormai radicati i clan calabresi e dove la Dda di Torino ha celebrato numerosi processi ottenendo numerose condanne per mafia. Le ultime definitive in Cassazione per il processo “Minotauro”.

A Genova le indagini hanno confermato la presenza nella zona di alcune “locali” della `ndrangheta. «Tali strutture allo stato sembrano essere attive specie, ma non solo, nel ponente ligure con un consolidato insediamento di esponenti criminali legati in qualche misura alla ‘ndrangheta in grado di condizionare l’operato di alcuni amministratori locali e di incidere sulle attività imprenditoriali segnatamente svolte da quelle piccole o medie imprese che costituiscono il tessuto economico prevalente dell’intera area». La sentenza, che può definirsi “storica”, perché è la prima emessa in Liguria che riconosca sul territorio la sussistenza di locali di ‘ndrangheta sul territorio ligure, in particolare nel ponente, è stata emessa il 7 ottobre 2014».

A Bologna le indagini durate oltre due anni, e che hanno visto anche l’applicazione di un magistrato della Direzione nazionale antimafia, «hanno consentito di accertare l’esistenza di un potere criminale di matrice ‘ndranghetista, la cui espansione si è appurato andare al di là di ogni pessimistica previsione, con coinvolgimenti di apparati politici, economici ed istituzionali. A tal livello che oggi, quella che una volta era orgogliosamente indicata come una Regione costituente modello di sana amministrazione ed invidiata per l’elevato livello medio di vita dei suoi abitanti, oggi può ben definirsi “Terra di mafia” nel senso pieno della espressione, essendosi verificato quel triste fenomeno cui si era accennato nella relazione dello scorso anno, quando si era scritto di una “infiltrazione che ha riguardato, più che il territorio in quanto tale con una occupazione “militare”, i cittadini e le loro menti; con un condizionamento, quindi, ancor più grave”».

Ed ulteriormente grave, spiegano i magistrati, «è da ritenersi il fatto che tale realtà non si è creata come effetto di un “contagio” delle terre emiliane dovuto alla presenza della ‘ndrangheta negli altri territori dell’Italia settentrionale, in cui importanti indagini pregresse hanno svelato l’esistenza di quel tipo di delinquenza organizzata (leggasi buona parte della Lombardia, Piemonte e Liguria); bensì per ragioni ed in forza di dinamiche criminali distinte rispetto a quelle che hanno riguardato quei territori e proprie della Regione stessa. Sicché in Emilia la ‘ndrangheta parla l’accento della zona di Crotone che si fonde con quello locale, ed è specificamente riferibile, almeno per quanto è stato accertato attraverso la citata indagine, al potente sodalizio mafioso di Cutro facente capo a Nicolino Grande Aracri. E l’influenza di questo si estende anche ad altri territori della limitrofa Lombardia (sostanzialmente corrispondenti all’area di competenza del Distretto di Brescia) e del Veneto, in cui sintomaticamente non si riscontra la massiccia presenza di quella che è stata definita la ‘ndrangheta unitaria di matrice reggina».

CAMORRA

Ciò che viene individuato come riconducibile al fenomeno denominato Camorra «è l’insieme di quei, più o meno ampi, gruppi organizzati ed internamente strutturati secondo una dimensione gerarchica e che operano essenzialmente in Campania; che perseguono strategie di controllo del territorio ove sono insediati e, talvolta, dei traffici illeciti che travalicano tali confini; che agiscono con il metodo dell’intimidazione e della violenza anche per infiltrarsi nel settore economico e nel sistema politico locale; che, in definitiva, perseguono programmi di intensa ramificazione di interessi di tipo criminale in ambiti territoriali più o meno ampi».

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Per i magistrati «la Camorra non è un’entità assimilabile dal punto di vista delle forme di manifestazione né a Cosa nostra né alla ‘ndrangheta».

Il controllo camorristico sul territorio «si manifesta significativamente anche egemonizzando l’offerta di un determinato servizio e vincendo ogni resistenza attraverso il patrimonio d’intimidazione che il clan è in grado di esprimere. La posizione di illecito monopolio, in tal modo acquisita, determina un’alterazione nel mercato costringendo coloro che lo richiedono a corrispondere somme notevolmente superiori agli standard di mercato rilevati in altri territori per analoghi servizi». Altro settore da tempo eletto dalle organizzazioni camorristiche ad uno degli ambiti entro i quali appare più conveniente reinvestire profitti criminosi è quello delle agenzie di scommesse, tanto che «su questo terreno spesso si formano e consolidano alleanze o, viceversa, si consumano sanguinose rotture».

La gestione criminale del gioco on-line si muove nel solco tracciato dall’analoga gestione della distribuzione delle macchine utilizzate per il video-poker.

CRIMINALITA’ ORGANIZZATA PUGLIESE

I clan pugliesi sono variegati, «essendo del tutto inappropriata l’identificazione dell’associazione mafiosa comunemente nota come “sacra corona unita” con tutta la criminalità di tipo mafioso operante sul territorio della regione». Per i magistrati della Dna c’è «la convinzione che la “Sacra Corona Unita” sia un’organizzazione mafiosa estremamente localizzata, sicuramente in contatto, tramite suoi affiliati e per la realizzazione di proficui affari delittuosi, con altre organizzazioni o gruppi criminosi anche stranieri, ma senza una tendenza espansionistica al di fuori del territorio di appartenenza». La “Sacra Corona Unita”, per quello che risulta dalle più recenti acquisizioni processuali, non è la “mafia pugliese”, ma piuttosto la “mafia salentina”, atteso che nelle altre provincie della Regione «non è stata segnalata la presenza di gruppi facenti parte della organizzazione mafiosa in esame e dalle indagini in corso presso la Dda di Lecce e dalle più recenti dichiarazioni dei collaboratori emergono solo occasionali contatti fra componenti dei gruppi criminali delle altre provincie pugliesi ed appartenenti alla “Sacra Corona Unita”».

Nonostante ciò, per gli inquirenti, «la delineata “territorialità” della Sacra Corona Unita non è significativa di una minore importanza o di minore pericolosità dell’organizzazione mafiosa, tenuto conto della dinamicità mentale e del senso degli affari più volte dimostrate dai rappresentati di tale sodalizio: basti considerare come la Scu abbia subito colto, con proficui risultati, l’occasione che le si presentava dalla vicinanza geografica con i territori dell’Est dell’Europa, sviluppando, da molti anni, proficui rapporti di affari, di scambi economico – criminali e di collaborazione con le organizzazioni criminose operanti su tali territori».

La ricerca del consenso da parte della popolazione resta tuttavia il principale obiettivo dell’attività dell’organizzazione, tenendo anche conto del «non secondario intento di evitare che clamorosi episodi criminosi possano attirare le attenzioni delle forze dell’ordine e dell’autorità giudiziaria, con conseguente rischio per il normale procedere degli affari gestiti dalle organizzazioni stesse, che costituiscono la fonte primaria di reddito per gli affiliati a tali organizzazioni».

Essendo poi in atto i reinvestimenti dei capitali illeciti derivanti dalle attività criminose tradizionali della consorteria criminosa – in primis il traffico di stupefacenti, poi il gioco d’azzardo, l’usura – e dovendosi avvalere, a tale scopo, di persone formalmente esterne all’associazione, «si è deciso di “evitare i rituali di affiliazione di persone che hanno disponibilità economiche per evitare che questo “aspetto formale” possa danneggiarli e per tenere riservata la loro partecipazione al clan”».

La caratteristica della criminalità organizzata del distretto di Bari – con le peculiarità della mafia operante nell’area foggiana – «è la atomizzazione in una pluralità di sodalizi, ciascuno strutturato in un clan, con organizzazione interna di tipo verticistica, imperante in porzioni territoriali circoscritte che nella città di Bari corrispondono ai quartieri cittadini».

Riguardo la mafia foggiana la Dna evidenzia «come la stessa stia vivendo un processo di trasformazione qualitativa che così può schematizzarsi: instaurarsi di rapporti di collaborazione e di mutualità tra la “mafia della pianura” (area di Foggia città) e la “mafia dei montanari” (area garganica); instaurarsi di rapporti tra mafia foggiana e mafia casertana (clan dei Casalesi); infiltrazione nelle maggiori attività amministrative ed economiche (aziende municipalizzate; aziende vitivinicole; settore turistico alberghiero; settore movimento terra ed energie rinnovabili)».

LA MAFIA A ROMA

Se sul territorio laziale sono dunque presenti le articolazioni di tutte le organizzazioni mafiose tradizionali, che si dedicano al riciclaggio e al reinvestimento dei capitali illecitamente accumulati, vi è poi un altro fenomeno, «del tutto peculiare alla realtà della Capitale, rappresentato da organizzazioni che sono state qualificate dalla Dda come associazioni di stampo mafioso ma che non fanno riferimento ai sodalizi tradizionali del sud Italia, essendo, per così dire, autoctone». In una città come Roma, una città di servizi e di attività terziarie, gli affari più lucrosi si fanno appunto attraverso l’acquisizione e il controllo di questi servizi, e dunque attraverso l’infiltrazione sistematica nei settori economici e commerciali e nei servizi pubblici, e dunque negli appalti pubblici.

L’associazione capeggiata da Carmine Fasciani, che opera ad Ostia, era impegnata nel traffico di stupefacenti, nelle attività di usura ed estorsione, ma soprattutto nel controllo di numerose attività commerciali e nella gestione degli stabilimenti balneari sul litorale.

Nel centro di Roma invece c’è l’associazione capeggiata da Massimo Carminati, che si dedica alla corruzione, all’usura, alle estorsioni, al commercio di armi, ma soprattutto all’acquisizione di appalti in vari settori in favore delle società controllate dall’organizzazione.

L’indagine ha messo in evidenza uno spaccato delle istituzioni romane davvero sconfortante e preoccupante». L’organizzazione capeggiata da Carminati è stata definita dagli inquirenti con il nome di “Mafia Capitale”. «Si tratta di un’organizzazione mafiosa, del tutto peculiare, che opera su due fronti: un fronte prettamente criminale in cui essa agisce con atteggiamenti esplicitamente minatori e violenti per realizzare estorsioni, recupero crediti, per “convincere” chi non intende sottomettersi e in cui utilizza il potere e la forza di intimidazione che deriva dalla storia criminale del suo capo, dai suoi legami con la banda della Magliana e con l’eversione nera, dai numerosi coinvolgimenti in procedimenti relativi a gravissimi fatti dai quali peraltro è stato sovente assolto. Su tale versante il prestigio criminale di Carminati è alimentato anche da articoli di stampa o libri che ne celebrano il passato delinquenziale, circostanza di cui lo stesso si compiace ritenendola funzionale ai suoi scopi, in ciò marcando la differenza rispetto ai capi delle mafie tradizionali; un fronte per così dire imprenditoriale, trattandosi di un’associazione che opera in una città che ha le caratteristiche già ricordate, che comportano la necessità di limitare l’uso della forza e di altri metodi violenti. Su tale versante perciò l’associazione privilegia lo strumento della corruzione rispetto a quello dell’intimidazione, al quale comunque ricorre in caso di necessità».

Di fatto, avvalendosi del legame con alcuni personaggi dell’estrema destra romana divenuti negli anni importanti personaggi politici o manager pubblici, e attraverso alcuni esponenti del mondo imprenditoriale, «l’organizzazione di Carminati ha potuto condizionare pesantemente il contesto politico ed amministrativo romano, determinando la nomina di personaggi “graditi” in posizioni strategiche quali quelle di presidente e di capo segreteria dell’assemblea capitolina, di presidente della Commissione per la Trasparenza del consiglio capitolino, di direttore generale, consigliere di amministrazione, dirigente dell’azienda municipalizzata AMA; ottenendo l’allontanamento e la sostituzione del direttore del dipartimento per i servizi sociali del Comune di Roma in quanto non “sensibile” alle esigenze del sodalizio; intervenendo nelle elezioni comunali di Sacrofano, paese alle porte di Roma».

In tal modo il sodalizio ha costituito quello che i pm definiscono «un capitale istituzionale, consistente in un articolato sistema di relazioni arrivato a coinvolgere i vertici delle istituzioni locali, grazie al quale ottenere appalti o accelerare pagamenti, o comunque individuare fonti di arricchimento in favore delle aziende controllate, e realizzare così ingentissimi guadagni».

Grazie a tale capitale istituzionale, costantemente alimentato da un imponente circuito corruttivo, «l’organizzazione è riuscita ad ottenere, per le imprese da lei controllate (società cooperative sociali e ditte operanti nel movimento terra e nello smaltimento dei rifiuti), solo per quanto fin qui accertato, affidamenti particolarmente redditizi dal Comune di Roma e dall’Ama, tra i quali quelli nella gestione dei campi nomadi, delle strutture riservate agli stranieri e ai minori non accompagnati, gli appalti nella raccolta dei rifiuti, nella manutenzione del verde pubblico e nella raccolta delle foglie. Parimenti il sodalizio è riuscito ad ottenere lo sblocco di fondi destinati alle citate cooperative sociali interferendo sulla programmazione del bilancio di Roma capitale e ad orientare l’assegnazione dei flussi di immigrati verso le strutture gestite dalle cooperative controllate».

Altro obiettivo del sodalizio è l’acquisizione di attività economiche ed imprenditoriali, che esso realizza sia offrendo forme di protezione con l’obiettivo di entrare in affari con gli imprenditori, sia erogando finanziamenti allo scopo di acquisire poi il controllo dell’impresa.

Le mafie tradizionali si atteggiano diversamente al sud dove il linguaggio delinquenziale ed il messaggio criminale passano necessariamente attraverso minacce, intimidazioni, richieste estorsive e atti di aggressione fisica che giungono fino all’omicidio, rispetto al nord, dove gli interessi della mafia sono soprattutto i grandi appalti, dove gli strumenti utilizzati sono prevalentemente la corruzione, il condizionamento delle istituzioni, lo scambio elettorale, e dove il messaggio intimidatorio può non essere esplicito.

Questo concetto spiegano i magistrati della Dna «non può evidentemente applicarsi tout court alle organizzazioni autoctone di cui si tratta, che non fanno riferimento ad una realtà criminale più ampia e radicata, che spendono il loro personale prestigio criminale e non quello costruito in un diverso territorio».

MAFIE STRANIERE

Emergono i gruppi criminali di matrice nigeriana che «non perseguono strategie di accentuata conflittualità con le cosche mafiose o di tipo mafioso presenti sul territorio e che anzi, nel mantenere saldo un radicato potere di tipo “politico” sul territorio medesimo, consentono ai gruppi stranieri (e quindi anche a quelli composti, in tutto o in parte, da cittadini nigeriani) di svolgere i propri traffici in condizioni di relativa tranquillità ove da essi ne derivino comunque vantaggi di natura economica».

La criminalità organizzata rumena si caratterizza, da un lato, per le proprie straordinarie conoscenze tecnologiche ed informatiche, il che la pone ai primi posti nelle statistiche relative al fenomeno del cyber crime transnazionale e, dall’altro, per la grande flessibilità organizzativa e mobilità operativa, tanto da essere considerata una tra le forme di criminalità itinerante più pericolose e diffuse in Europa.

L’analisi della criminalità di origine cinese in Italia rileva una sempre maggiore capacità organizzativa dei gruppi. I reati commessi dai cittadini cinesi nel nostro Paese, in ragione della loro natura transnazionale, sono capaci di incidere significativamente sul nostro sistema economico-finanziario.

La gestione illegale dei flussi migratori e la conseguente possibilità di sfruttare manodopera a costi irrisori, la contraffazione e il contrabbando sono in grado sia di turbare il regolare andamento del libero mercato, sia di arrecare un serio danno all’erario, sotto il profilo dell’evasione fiscale e contributiva.

Le principali attività illecite poste in essere sono il contrabbando e la contraffazione di merci.

I reati di contraffazione, contrabbando e riciclaggio non esauriscono le manifestazioni di criminalità delle comunità cinesi radicate sul nostro territorio. Sono ancora numerosi i casi accertati di reati in materia di immigrazione clandestina e sfruttamento del lavoro e della prostituzione. Anche il traffico illecito di rifiuti sta assumendo proporzioni allarmanti.

Una particolare attenzione investigativa è riservata al flusso verso la Cina delle enormi disponibilità finanziarie delle comunità cinesi al fine di verificare se tali rimesse siano collegate ad attività di tipo lecito o meno, non solo dal punto di vista valutario, ma anche nella prospettiva di possibili attività legate all’evasione fiscale o a veri e propri casi di riciclaggio di proventi illeciti.

E’ sempre più elevato e concreto il rischio di stabili collegamenti della criminalità cinese con le mafie autoctone radicate nel nostro territorio.