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Testo Caponnetto.

L’assurda storia della vicenda giudiziaria che ha portato alla soppressione  di una delle poche voci libere in Italia,la “VOCE DELLE VOCI”.Le perplessità  ed il dolore dell’Associazione Caponnetto.

Il 26 gennaio p.v. presso il Tribunale di Roma il verdetto definitivo del Giudice per l’esecuzione.
Così muore la stampa libera in Italia ad opera,peraltro,di chi dice di difendere la libertà d’informazione.

Tra una settimana la Voce sarà nuovamente in tribunale. A Roma, davanti al giudice dell’esecuzione. Dove l’amica di Antonio Di Pietro Anita Zinni l’ha trascinata per vedere il giornale spogliato definitivamente di tutto: i quattro soldi che un anno fa erano ancora su un conto corrente della cooperativa (messi da parte per stampare un paio di numeri  successivi del giornale), i contributi – già ridotti all’osso – che il Dipartimento editoria della presidenza del Consiglio elargisce alle piccole testate storiche per assicurarne la sopravvivenza, e già che ci siamo anche la testata stessa, pignorata a Napoli nell’ambito dello stesso procedimento esecutivo azionato da Di Pietro e dai suoi accoliti, che ha letteralmente sbranato il giornale.

Numerosi articoli – pubblicati sul sito della Voce, ma anche da Ossigeno per l’informazione – riassumono l’allucinante vicenda che volge ora al termine: un pezzo scritto per la Voce nel 2008 dal giornalista Rai Alberico Giostra  due anni dopo aveva fatto risvegliare l’amica di famiglia di Di Pietro, la compaesana di Montenero di Bisaccia Annita Zinni. La quale il 9 aprile 2010, proprio mentre si accinge a spiccare il volo verso la segreteria provinciale di Italia dei Valori (cui assurgerà, dopo un aspro confronto con i rivali, il 7 luglio 2010) ci pensa su e decide che due anni prima quell’articolo, in fondo, l’aveva scocciata. Peggio, le aveva provocato un fastidioso turbamento.

Probabilmente dopo aver ricevuto l’affettuoso conforto di un’altra sua amica di lunga data, il procuratore capo facente funzioni a Sulmona Aura Scarsella, la Zinni spara allora dinanzi allo stesso Tribunale di Sulmona una citazione civile in cui chiede alla Voce un risarcimento danni “non inferiore a 40.000 euro”.  E le va di lusso, perche´ il 25 marzo 2013 il giudice di Sulmona Massimo Marasca, dopo aver ammesso ed ascoltato come teste a favore della Zinni anche la stessa sua collega Aura Scarsella (con la quale opera quotidianamente in veste di gip), condanna la Voce ad un risarcimento danni doppio rispetto alla già sbalorditiva e spropositata  richiesta della signora: quasi settantamila euro a parte interessi, rivalutazioni etc., lievitati oggi, due anni dopo, a circa 150mila euro. Da qui il bombardamento di pignoramenti a carico del direttore della Voce e della cooperativa (che era riuscita a reggere anche durante gli anni più duri della crisi economica, prima che l’affondassero Di Pietro e la Zinni), con una denigrazione permanente in tutte le sedi bancarie del Paese, nemmeno fossimo mafiosi colpiti da misure di prevenzione della Dda. Magicamente scomparso da ogni tipo di azione risarcitoria l’autore dell’articolo Alberico Giostra che, per quanto ne sappiamo da internet (visto che con noi è sparito), mantiene tranquillamente il suo posto in Rai e pare anzi aver ritrovato con Di Pietro l’intesa dei bei tempi andati.

E’ così che la Voce si presenterà il prossimo lunedì 26 gennaio all’esecuzione.

L’ultima speranza dei condannati è riposta nella Procura della Repubblica di Campobasso. Che su quella assurda sentenza di Sulmona ha voluto vederci chiaro. E ha iscritto già da diversi mesi nel registro degli indagati il giudice che l’aveva pronunciata, Massimo Marasca, con le ipotesi di abuso d’ufficio e omissione di atti d’ufficio. Parti offese da quei reati, come risulta nero su bianco dai certificati, sono il direttore della Voce Andrea Cinquegrani e il presidente della cooperativa editrice Rita Pennarola. Le indagini sono ancora in corso.

Un giudice c’è e ci sarà, a Berlino come a Campobasso. E ci sarà un giudice anche a Roma. Al quale lunedì chiederemo, prima di ogni cosa, se qualcuno può spiegarci perche´ sul fascicolo i giudici di Sulmona hanno apposto come motivazione non la scritta “diffamazione”, bensì “Lesione personale”. La stessa dicitura che, come abbiamo ricordato al presidente Napolitano (il quale su questa vicenda ha trasmesso gli atti al Csm per i dovuti accertamenti di carattere disciplinare), si applica nei casi di operai sfracellati al suolo cadendo da un’impalcatura. E questo non è, ne´ è mai stato il caso, della più che mai esuberante signora Annita Zinni.

Anzi, se verrà ad assistere all’esecuzione, lo chiederemo direttamente a lei.