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La storia di un carabiniere ligio ai suoi doveri e che viene ingiustamente punito: Saverio Masi

C’è chi a dieci anni vuole fare il pirata. Chi il pilota di formula uno. Chi l’aviatore.
Saverio Masi, a dieci anni, era alla processione durante la quale la mafia uccise il capitano Emanuele Basile. Anno 1980, Festa del Santissimo Crocifisso. I fuochi d’artificio che coprirono gli spari. La moglie che lo vide accasciarsi. La figlia di quattro anni, viva per miracolo, a terra senza respiro schiacciata dal corpo del padre. Paolo Borsellino che corse all’ospedale dove era stata tentata un’inutile operazione.
Il piccolo Saverio aveva assistito a tutta la scena: giurò che sarebbe diventato come lui, un Carabiniere.
Infatti, mentre quelli della sua età si guardavano in giro alla ricerca di un posto, Saverio Masi deluse tutta la sua famiglia che gli aveva tracciato un percorso facile e tranquillo. Memore del suo giuramento, andò a bussare alla porta della Scuola Sottufficiali, guardando a Paolo Borsellino e alla sua squadra investigativa. E quello divenne il suo traguardo: lavorare al suo fianco e arrestare i mafiosi.
Purtroppo Masi non riuscì a raggiungerlo, perché ancora frequentava la Scuola quando Paolo Borsellino fu ucciso.
Dovette chiedersi se aveva ancora senso diventare Carabiniere. Il dubbio ebbe breve durata. Tutte quelle morti di cui non si trovavano né gli autori né i mandanti, Vito Jervolella, Alfredo Agosta, Salvatore Raiti, Silvano Franzolin, Luigi Di Barca, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Mario D’Aleo, Pietro Morici, Giuseppe Bommarito, Salvatore Bortolotta, Mario Trapassi, quasi tutti ormai dimenticati, chiedevano giustizia. Allora tenne duro.
Forte del suo ammirevole stato di servizio in Campania, quando riuscì a farsi trasferire a Palermo credette di potersi dedicare alla cattura dei latitanti più pericolosi.
Di questo periodo, Masi depone al processo a Mario Mori e in quello sulla Trattativa raccontando che, nel 2005 nel corso di una perquisizione a casa di Ciancimino, un capitano dei carabinieri trovò il papello di Totò Riina contenente le dodici richieste del boss allo Stato ma, quando ne informò i suoi superiori, questi gli ordinarono di “… non sequestrarlo sostenendo che già lo avevano”.
La versione ufficiale, invece, è che il papello fu consegnato ai magistrati da parte di Ciancimino solo nel 2009.
Ma torniamo alle dichiarazioni: stando alla versione di Masi, l’intenzione di non catturare Provenzano, almeno in un primo momento, era manifesta.
Un suo superiore gli avrebbe apertamente detto:
<<Noi non abbiamo nessuna intenzione di prendere Provenzano. Non hai capito niente allora? Lo vuoi capire o no che ti devi fermare? Hai finito di fare il finto coglione? Dicci cosa vuoi che te lo diamo. Ti serve il posto di lavoro per tua sorella? Te lo diamo in tempi rapidi>>.
Il Maresciallo sostiene anche che non è stato fatto tutto il possibile per arrivare all’arresto di Matteo Messina Denaro, anzi racconta di aver identificato, una decina di anni fa, il corriere del superlatitante e di aver chiesto di poter indagare con l’ausilio di telecamere e di cimici
Illustrazione 1: Salvatore Borsellino con Saverio Masi
ma la risposta, sostiene Masi, sarebbe stata negativa. Identico copione quando afferma di aver intercettato lo stesso Messina Denaro a bordo di un’auto a Bagheria, provincia di Palermo, e di aver individuato la villa dove si nascondeva.
In un’altra occasione, pedinando Francesco Mesi (uno dei fedelissimi del boss trapanese), Masi giunse presso un casolare in cui avrebbe potuto piazzare microspie. Mancavano pochi giorni alle sue ferie e si disse pronto a rinunciarvi pur di provvedere, ma il suo superiore gli assicurò che, anche in sua assenza, si sarebbe effettuata l’operazione. Ciò che poi risultò non essere stato fatto.
Gli ha creduto Antonio Ingroia, nelle mani del quale, Saverio Masi rilasciò le dichiarazioni che narrano minuto per minuto tutta la vicenda. Gli credo io perché l’ho guardato in faccia. Perché, da questa dichiarazione, il M. llo Masi non ha tratto alcun vantaggio, anzi è stato sommerso dai problemi professionali e di vita. Eppure deve essere per forza un buon Carabiniere perché, ora che è capo-scorta del magistrato più a rischio d’Italia, Nino Di Matteo, quest’ultimo dichiara il suo apprezzamento a tutti coloro che vogliono ascoltarlo.
Ma torniamo alla nostra piccola storia.
Al ritorno dalle ferie – siamo nel 2008 – Masi dovette recarsi a incontrare di tutta fretta un suo confidente. Utilizzò la sua auto, ciò che la maggior parte dei Carabinieri fa in simili situazioni, anche per proteggere la copertura del confidente. E, poiché la fretta era davvero tanta, mesi dopo gli fu recapitata una multa di 106 euro.
Che cosa si fa, in questi casi e nel mondo intero, quando si utilizza un’auto privata per servizio e si prende una multa? Se ne giustifica l’impiego al Ministero competente. E così fa Masi, premettendo – alla sottoscrizione “il comandante” – il solito “A. P. S. ” (Assente Per Servizio) e la propria firma.
Così, mentre Masi si avvia alla Procura per testimoniare circa certi comportamente non precisamente corretti, che suggeriscono un disinteresse totale alla cattura di latitanti, ma che paiono diventare addirittura ostacolo attivo quando si tratta degli illustri capi mafiosi sunnominati, allora ecco che il suo comandante si accorge che – orrore! – l’uomo che rischia la pelle tutti i giorni nell’interesse di questo Paese ha firmato in vece sua, premettendo come dicevamo il solito “A. P. S. “, la richiesta di annullamento di una multa di 106 Euro!
Il Maresciallo è subito trasferito al servizio scorte, dove non può più occuparsi di latitanti, famosi o sconosciuti che siano, ma dove si guadagna la stima di Nino Di Matteo che è chiamato a tutelare.
Eppure Masi è stato fulmineamente condannato in primo e in secondo grado per una serie di reati collegati alla detta firma e che farebbero arrossire Totò Riina: le sentenze non si discutono. E allora? La Cassazione è chiamata a pronunciarsi il 30 ottobre di quest’anno. Questo è lavoro per l’avv. Giorgio Carta, difensore capace e testardo. Masi, che ha dedicato la sua vita all’Arma, potrebbe essere allontanato se la condanna a sei mesi di carcere, pena sospesa, fosse confermata.
Ma gettiamo un occhio sul processo, tanto per non lasciare nulla nell’ombra.
Nel 2011 il M. llo Masi era stato condannato – con rito abbreviato – a 8 mesi per falso materiale, falso ideologico e per tentata truffa. Secondo l’accusa avrebbe dunque falsificato un atto del proprio ufficio per far annullare una sanzione del codice della strada di 106 euro, riportata durante un servizio svolto con una vettura privata, nel 2008, quando era in forza al Nucleo Investigativo del Comando Provinciale dei Carabinieri di Palermo.
A distanza di due anni quella condanna viene “alleggerita” del capo di imputazione di falso ideologico – e quindi di due mesi – perché il Tribunale finalmente appura che Masi, quel giorno, era davvero in servizio
L’accusa nei suoi confronti si basa su dati oggettivi palesemente inattendibili, in particolare
la asserita “rarissima concessione dell’utilizzo di auto private per l’espletamento di servizi di indagine”.
Un’affermazione smentita dagli stessi appartenenti alle forze dell’ordine, così come dal sindacato di Polizia “Coisp”, che era presente in aula attraverso un suo rappresentante. Sarebbe bastata l’autorizzazione a depositare copia del passaporto di Masi per chiarire che la firma apposta dallo stesso sulla lettera non è falsa, ma identica a quella in calce al documento. Sarebbe forse perfino bastata l’autorizzazione a depositare ulteriori memoriali di servizio che avrebbero attestato l’effettivo abituale utilizzo di auto private per l’espletamento di servizi di indagine. Memoriali che, però, sono stati negati con forza dal Comando Provinciale e di cui la stessa Corte non si è voluta interessare.
Risultato? Se la condanna sarà confermata dalla Cassazione il 30 di ottobre (e nessuno può accettare una simile idea) Masi sarà espulso dall’Arma, mentre un numero sempre crescente di cittadini di ogni genere si schiera al suo fianco attraverso incontri, tavole rotonde e manifestazioni.
E’ perfino stato dato il via a una petizione perché Saverio Masi, memoria storica della mafia, sia restituito a un Reparto Investigativo, in nome dei tanti che credono nella giustizia. Nessuno ha mai immaginato che essa potesse influire sulle decisioni del Comando Generale dell’Arma, si è soltanto utilizzato uno stratagemma per informare le migliaia di cittadini che si sono volonterosamente fermati al banchetto. Per dire a Masi che non è solo.
E ora, che accadrà? Appuntamento al 30 ottobre.
laura caputo