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Mafia: i testimoni di giustizia sono un bene comune?

di Consuelo Cagnati | 6 agosto 2014

“La testimonianza in questo paese non è considerata un bene comune” così afferma l’Associazione Antimafie Rita Atria che il prossimo 8 agosto a Milazzo festeggerà i suoi primi vent’anni. Vent’anni spesi a denunciare le mafie e a fornire sostegno ai testimoni di giustizia. Se la testimonianza ad oggi non è considerata un bene comune la responsabilità è di tutti i livelli politici e sociali di questo Paese. Innanzitutto è fondamentale la differenza tra testimone e collaboratore di giustizia: nel 2001 una legge sancisce le differenze ma ciò non basta, si riscontra molta confusione, spesso anche tra i media. Emblematico il caso di Lea Garofalo che nel 2009 -qualche mese prima di essere bruciata in un fusto – scriveva al Presidente della Repubblica e sottolineava che lei non era una collaboratrice ma una testimone.

Testimone è chi –pochi sono i casi – porta la propria testimonianza oculare disinteressata, testimone è chi denuncia e proviene da una famiglia mafiosa da cui si dissocia, testimone è l’imprenditore o il commerciante che denuncia gli estorsori e, quasi sempre, vuole rimanere nella propria terra.

Il 13 giugno, Nadia Furnari, membro del direttivo nazionale dell’associazione, è stata ascoltata dal V comitato della Commissione nazionale antimafia, proprio sul tema dei testimoni di giustizia. L’obiettivo è apportare le necessarie integrazioni alla legge 45/2001, legge che non ha analizzato né risolto alcuni gravi problemi che hanno afflitto gran parte dei testimoni, senza peraltro trovare completa ed efficace applicazione nemmeno per le problematiche riconosciute nella sua stessa stesura.

In qualsiasi paese testimoniare dovrebbe essere un normale atto civico, ma in Italia molto spesso non è così e le conseguenze ricadono su chi l’ha compiuto e sulla sua famiglia. Per questo l’Associazione propone di aggiungere all’art. 16-ter un comma per prevedere un tutoraggio psicologico fin dall’inizio della collaborazione con gli inquirenti. E’ noto che moltissimi testimoni, a causa della traumatica esperienza vissuta per i disagi e le privazioni dipendenti dalle stesse misure speciali di protezione, necessitano di cure e sostegno psicologico. In molti, per esempio, tentano il suicidio o inseguono il disperato bisogno di tornare nella terra d’origine.

Viene poi suggerito un altro comma affinché i testimoni di giustizia possano beneficiare della contribuzione previdenziale dall’inizio della collaborazione fino alla definitiva cessazione delle speciali misure di sicurezza. Si chiede inoltre il diritto del reinserimento lavorativo anche a chi ha reso testimonianza prima dell’entrata in vigore della legge 45/2001.

E’ assolutamente necessario apportare delle modifiche migliorative a questa legge. E’ infatti perdente uno Stato che manda in esilio i suoi testimoni. In esilio o meglio, in galera, deve andare chi compie il reato. Lo Stato deve proteggere il testimone attraverso leggi appropriate, combattendo contro quella mentalità che porta l’individuo a vedere solo il proprio benessere. Queste le parole di Rita Atria: “Forse un mondo onesto non esisterà mai, ma chi ci impedisce di sognare. Forse, se ognuno di noi prova a cambiare, forse ce la faremo”.

Affinché anche in Italia, la testimonianza cominci ad essere un bene comune.

In ricordo di Rita Atria, testimone di giustizia. Figlia del boss di Partanna, a soli 17 anni, decise di seguire le orme della cognata Piera Aiello e di raccontare alla magistratura ciò che sapeva. Il primo a raccogliere le sue rivelazioni fu il giudice Paolo Borsellino al quale si legò come ad un padre tanto da scrivere – dopo la strage di Via d’ Amelio- sul suo diario”Borsellino sei morto per ciò in cui credevi, ma io senza di te sono morta.” Una settimana dopo Rita Atria si uccise a Roma, dove viveva in segreto, lanciandosi dal settimo piano di un palazzo.

http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/08/06/mafia-i-testimoni-di-giustizia-sono-un-bene-comune/1083478/