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L’odissea di una testimone di giustizia

L’odissea di una testimone di giustizia (INTERVISTA)

La storia di Carmelina Prisco che nel 2003 ha assistito ad un omicidio di camorra a Mondragone e ha testimoniato facendo condannare il killer. Questa scelta, però, le ha cambiato la vita.

Una “rosa nel deserto”. Così l’ha definita nel suo primo libro il magistrato antimafia, Raffaele Cantone. Era lui il pubblico ministero antimafia che raccolse la testimonianza di Carmelina Prisco. Non una testimonianza qualsiasi; un dettagliato e lucido resoconto di un omicidio di camorra. Carmelina fino a quel giorno non aveva mai avuto a che fare con la camorra. Era un’insegnante con una piccola ditta di pulizie con la quale provvedeva alle spese della sua numerosa famiglia. La notte tra il 13 e il 14 agosto del 2003 la camorra però ha bussato prepotentemente alla porta della sua vita e lei non ha abbassato la testa. In quella notte estiva, lei era in bici con le amiche e organizzava cosa fare per il ferragosto quando dei colpi di arma da fuoco squarciarono il suono delle loro risate.

Tra i tavolini del “Roxy bar” di Mondragone rimase ucciso Giuseppe Mancone, detto Rambo, spacciatore della zona. Ad esplodere i colpi mortali fu Salvatore Cefariello, di Ercolano, affiliato al clan Birra. In quel periodo i Birra stavano conducendo degli affari di droga con il clan Fregnoli, che a Mondragone ha sostituito il clan La Torre dopo il pentimento del capoclan Augusto, e gli inquirenti sospettano che quell’omicidio fosse un regolamento di conti affidato ai nuovi partners per testarne l’affidabilità. Carmelina con le sue amiche era praticamente a dieci metri dall’assassino. Vide tutta la scena e rimase paralizzata. Ma ricordava tutto del killer, scene come queste rimangono impresse. Chiamò i carabinieri ma non fanno in tempo a trovare il killer.

Il mattino seguente Carmelina fece quello che riteneva più giusto. Andò spontaneamente dai carabinieri, raccontò tutto quello che aveva visto. Fornì un identikit dell’omicida, disegnandolo di suo pugno. Dopo qualche mese il killer venne arrestato e lei si presentò al riconoscimento, incastrandolo. Lo stesso al processo. Tutto questo per lei fu normale ma da quel giorno la sua vita cmabiò radicalmente. Venne inserita nel programma di protezione dei testimoni di giustizia e dovette lasciare da un giorno all’altro tutto. Lavoro, famiglia, amici, tutto quello che aveva per andare in “stand by” per oltre tre anni. Tre anni durissimi passati tra una stanza d’albergo e l’altra, spostata come un pacco nemmeno tanto gradito allo Stato.

Chi doveva tutelarla, la trattava quasi come se fosse un collaboratore di giustizia, lei che con la camorra non aveva mai lontanamente avuto a che fare. Lei che con il suo gesto non aveva solo fatto arrestare un killer della camorra ma aveva abbattuto un muro d’omertà che da anni imperava nel casertano. A nove anni da quell’omicidio lei vive ancora a Mondragone. Senza alcuna tutela. Ma soprattutto senza quel lavoro e quella vita che si era costruita con tanta fatica. E’ disoccupata adesso e non sa come tirare avanti. Allo Stato verso il quale aveva dimostrato la sua lealtà non chiede che una possibilità che meriterebbe molto più di altri. Tutto quello che le resta è la sua dignità ma solo con quella anche una “rosa nel deserto” rischia di appassire.

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